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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

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Nell’era digitale, la leadership comprende l’abilità di far convergere messaggi attraverso più canali per raggiungere un “end-state” o punto di arrivo prefissato.

Questo vale per la leadership tra umani ma anche per ogni forma di leadership attuale e futura, inclusa quella del dominio del pensiero e dei valori sulle macchine, o la cooperazione con unità dotate di Intelligenza Artificiale, una nuova sfida della comunicazione.

Domanda. Perché crede che dovremmo temere l’intelligenza artificiale? È inevitabile che gli esseri umani creino dei robot in grado di uccidere?

Risposta. I computer supereranno gli esseri umani grazie all’intelligenza artificiale nei prossimi cento anni. Quando ciò avverrà, dovremo essere certi che gli obiettivi dei computer coincidano con i nostri (Hawking 2016).

Questa riflessione, non poi così fantascientifica, ci porta a ragionare su un concetto di base che domina ogni forma di analisi della leadership e della comunicazione nei gruppi:

Principio 1 – L’“allineamento sugli obiettivi” come fonte di energie del gruppo

Le performance di un team leader dipendono dal sapersi porre le domande corrette e dal saperle porre ai collaboratori e colleghi.

•     Vogliamo la stessa cosa? Riusciamo a “sentire” che cosa gli altri vogliono?

•     Quali diverse motivazioni ci spingono? Sono compatibili o possono diventarlo?

•     Come facciamo concretamente a essere certi di volere arrivare allo stesso risultato?

•     Le parole che usiamo hanno per tutti lo stesso identifico significato?

•     Quando diamo troppo per scontato che sia così?

•     Da che segnali puoi accorgerti che è in corso qualche fraintendimento o si stanno aprendo linee di divergenza sugli obiettivi?

•     Porti energie al gruppo di cui fai parte? Ci provi? Come lo fai?

Una buona comunicazione è uno dei fattori più critici per una Lead­ership che funzioni.

Tra i gruppi più importanti cui ispirarsi, vi sono le forze speciali e i team speciali. Questi comprendono persone e strutture che agiscono su compiti non convenzionali e in missioni ad alto grado di rischio operativo e personale, con sfide e pericoli concreti, per come operano e per quello che sono chiamati a perseguire.

In questi team, l’utilizzo di tecnologie di “realtà aumentata”, “sistemi esperti” e intelligenza artificiale è già una realtà.

Nel lavorare con questi team ho potuto constatare che un grande rischio strisciante nei gruppi e nella leadership è l’incomunicabilità, la difficoltà a trasferire messaggi chiari sul piano operativo per cui le risorse non riescono a interagire davvero bene e si creano colli di bottiglia o blocchi nella comunicazione.

La formazione “forte” opposta a una formazione debole e puramente amministrativa punta ad andare a caccia delle incomunicabilità, stanarle, forzarle a emergerle, per poi lavorarvi sopra.

Se servono esercizi difficili, poco importa.

Un pugile non disdegna sudare e sporcarsi, e lo stesso riguarda il manager che vuole davvero fare sul serio sulla propria formazione.

In questo caso, sarà il formatore a valutare la performance del manager, e non viceversa con le “pagelline di customer satisfaction di fine corso”, l’assurdità in cui gli studenti valutano i Maestri, la penosa e dolorosa realtà di una formazione mercificata e trattata come prodotto da banco.

L’allineamento sugli obiettivi riguarda la certezza che i leader, i team leader, i membri dei team e i supporti tecnologici e persino di intelligenza artificiale puntino tutti allo stesso “end-state” o punto di arrivo.

E se così non fosse, le persone che non ci credono, che non danno il contributo devono e possono essere cambiate.

Ne va, oramai, della sopravvivenza delle nostre aziende e della nostra stessa cultura umanistica.

Quando un gruppo funziona?

•     In un gruppo che funziona, le persone si sentono in grado di esprimersi lì, nel gruppo, e sanno di poterlo fare senza castrazioni inutili. Sanno allo stesso tempo distinguere un contributo al gruppo da un bisogno autoreferenziale di esprimersi. Sanno quando canalizzare sia la prima sia la seconda esigenza. Non confondono la missione del gruppo con altro.

•     Allo stesso tempo, in un gruppo che funziona ci sono poche regole chiare che fanno la differenza tra lo stare nel gruppo passivamente o esserne parte veramente vivendo appieno i suoi valori.

•     In un gruppo che funziona, il livello di coscienza è allineato a una visione forte di che cosa si voglia ottenere e sia i leader che i partecipanti hanno ben chiaro che cosa vogliono.

•     In un gruppo che funziona, la vicinanza tra i membri è morale e per quanto spazio li separi, saranno uniti. La loro modalità di operare li rende speciali.

•     Un gruppo che funziona si dota di modalità comunicative altamente efficienti sia quando si tratta di trasmettere pura informazione (dati) che quando si vuole trasmettere un messaggio a maggiore pregnanza emozionale (comunicazione emotiva). Entrambe vengono svolte con abilità specifiche diverse.

La leadership operativa si occupa di come fare funzionare questi gruppi nelle loro Comunicazioni Operative, quelle che essi attivano istante dopo istante, per coordinare attività, ruoli, compiti, scadenze, chi fa che cosa, quando, come, con chi, in che modo.

La libertà di azione è un valore sacro solo quando i membri del­l’orchestra vogliono dare il massimo nel brano che si deve suonare, e non diventarne puri solisti autonomi che operano per se stessi e non sentono l’esistenza di un risultato complessivo.

Chi intende intonare un brano che non contribuisce, o persino distrugge la performance del­l’intera orchestra, farà meglio a starne fuori.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • Leadership
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  • Motivazioni
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  • Comunicazione emotiva
  • Allineamento degli obiettivi
  • Incomunicabilità
  • Valori
  • Missione
  • Risultati

Un salto verso la tua più autentica emancipazione

©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Emancipazione. Una questione di “memetica”

Il Life Coaching è una grande forma di emancipazione di sè in cui la persona cerca di ri-tarare, con un supporto professionale, la direzione della propria vita, il suo approccio al corpo (da oggetto quasi inutile, a risorsa preziosissima) e gli stili di pensiero che usa, sino a dettagli fondamentali. Tra questi, allargare e selezionare la gamma delle fonti informative e comunicative che usiamo, facendo pulizia netta da stili mentali disfunzionali e cercando attivamente stili di pensiero utili, decisivi, che portino una capacità assertiva di attacco ai problemi, o capacità di rilassamento, meditazione e unione con valori universali.

Viviamo per riprodurre non solo DNA ma anche “memi”, tracce mentali, e di questo processo vogliamo essere non gli spettatori ma i protagonisti. Il meme, a sua volta ricavato dal greco mímēma ‘imitazione’, tende a replicarsi, e noi siamo sia vittime di questi virus (riceventi) che agenti virali (emittenti). 

Assorbiamo idee e poi le emettiamo. Vogliamo finalmente imparare a filtrare le idee in ingresso e stare allerta sul fatto che quelle che esprimiamo siano davvero nostre, e non ci limitiamo a fare da grancassa ad idee altrui?

La “memetica” o scienza delle idee, ci ricorda che noi siamo anche responsabili di andare a caccia attivamente di “memi” buoni (concetti, pensieri, idee), in qualsiasi campo dell’espressione umana e della natura: un giornale, un libro, un programma televisivo, un sito web, un canale digitale, un tipo di musica, un paesaggio – e stare alla larga e anzi depurarci da “memi tossici”. 

È ovvio che la memetica per il suo potere rivoluzionario sia non solo poco studiata ma anche ostacolata dalle accademie e potentati politici.

Questo comporta per noi una responsabilità etica, di incidere su cosa leggi e cosa guardi, come ti informi, a cosa presti attenzione, e anche un grande intervento di Coaching sul “Comunicare”.

Sappiamo di esistere e vogliamo – istintivamente – metterci in contatto con altre creature viventi. E’ nel nostro DNA, scritto nei geni.

Questa parte della vita è chiamata “comunicazione interpersonale”. 

Ma presto scopriamo che le nostre idee non vengono capite immediatamente, l’altra “persona” sembra non capire o non capire fino in fondo, o non gli interessa assolutamente niente di noi, come se tra di noi ci fosse una barriera, e quella barriera esiste. 

Si chiama “incomunicabilità”, e qualche livello, chi più chi meno, tocca tutti i rapporti. 

Per cui anziché maledirla, scopriamo che lavorare su di sè, sulla propria mente, sul proprio corpo, sulla propria efficacia nella comunicazione, è importante.

E allora, serve la grande dote coltivabile del continuare a crederci.

Non la forza, ma la costanza di un alto sentimento 

fa gli uomini superiori.

Friedrich Wilhelm Nietzsche

E se da bambini pensavamo che fare l’astronauta tutto sommato non fosse difficile, crescendo la vita inizia a sbatterci porte in faccia e le porte in faccia fanno male. Che si tratti di lavorare in azienda, di farsi assumere, di avere una propria attività e vendere i propri servizi, di portare le persone a fare una vacanza dove vorremmo noi, di uscire con una persona che ci piace, di far passare un nostro progetto. Scopriamo che la vita è dura.

Di fronte a questa scoperta, alcuni si ritirano, fanno marcia indietro, si racchiudono in una vita stereotipata dove non ci sia tanto da spiegare a nessuno né qualcosa di speciale da fare. Si rintanano in un loculo sempre più stretto. Quando vince il ciclo “produci – consuma – muori – taci” sei finito.

Altri non ci stanno, iniziano a studiare, a lavorare sulla propria mente, sul corpo, su come arrivare al cervello altrui e capire meglio le idee altrui. E a far capire le proprie idee, e flessibilizzare le proprie. Ad avere un rapporto diverso con il proprio corpo, a praticare discipline olistiche e vedere quanta libertà riescono a rubare ad un sistema che invece ti vorrebbe ingabbiato. A questi eroi è dedicato questo lavoro. 

Viviamo in una finestra di spazio-tempo grande come un granello di sabbia nell’immensità del tempo. Siamo piccoli, molto piccoli. Ma le nostre idee possono essere grandi, immense. E la vita è li a sfidarci: Vuoi ritirarti nella tua nicchia o vuoi uscire e combattere?

E se decidiamo di uscire, possiamo fruire di questa opportunità in una finestra di spazio-tempo molto stretta, la nostra vita terrena. L’epoca in cui nasciamo, la nazione e la zona in cui siamo venuti alla luce, non le abbiamo scelte, ma lì si gioca questa battaglia tra buio e luce, tra oppressione e libertà di vivere a pieno. 

Il coaching vuole dare il massimo del senso possibile a questa “finestra temporale” riaprendo il mondo delle scelte possibili e allargando i nostri orizzonti di vita, mentre il counseling si occupa di rimuovere alcune “incrostazioni” (psicologiche, relazionali, modelli mentali e comportamentali) che possono rendere difficoltosa l’apertura delle nostre finestre di vita e l’ingresso di luce e aria nella nostra esistenza.

La psicologia, come scienza, fa da sfondo a cui attingere così come una cava ricca di metalli preziosi da cui si ricavano gioielli, ma non è il gioiello. E’ lo strumento, uno degli strumenti, in alcuni case la fonte, in altri un ingrediente. Sta al lavoro di un coach, di un Counselor, di un consulente, di uno psicologo o terapeuta, di un fitness trainer, di un consulente, la capacità di creare la magia, prendere questi metalli grezzi e trasformarli nel gioiello che vada bene per te e porti la tua vita a risplendere nella gioia, e la tua anima ad avere il sorriso.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’articolo di oggi ruota attorno ad uno dei temi più discussi nel mondo del lavoro, ossia la comunicazione aziendale e la gestione delle risorse umane. 

Come imprenditori, c’è da chiedersi innanzitutto che valore attribuiamo ad entrambe, e quindi: 

  1. quanto contano per me le persone che lavorano nella mia azienda? 
  1. Considero utile la loro formazione? E quanto sono disposto ad investirci? 
  1. Quanto conta per me la comunicazione in azienda? La considero indispensabile per raggiungere il successo come impresa, oppure preferisco non sprecare ore preziose di lavoro per formarmi e formare i miei dipendenti alla comunicazione efficace? 

Ci sono molte altre domande che potrei aggiungere, ma se dovessi elencarle tutte, probabilmente al posto di un articolo produrrei un libro. 

È chiaro che, una volta che ci siamo posti le giuste domande, dobbiamo anche darci le giuste risposte. E proprio a questo punto sarei curiosa di leggere nel pensiero di ogni imprenditore che sta leggendo questo post, per creare una statistica reale della concezione che le aziende italiane hanno del capitale umano e del supporto consulenziale in marketing e comunicazione strategica. 

Potrei sbagliarmi, ma dalle precedenti esperienze lavorative mi sono accorta che, in Italia, la maggior parte delle aziende vede le persone come numeri sostituibili e i corsi di formazione come una spesa inutile.  

Il nostro compito, come consulenti, è quello di sfatare questo mito e di provare in tutti i modi a far aprire gli occhi delle aziende sul futuro del lavoro. 

Il futuro che io vedo, forse ancora nell’utopia della giovinezza, è un futuro dove le aziende valorizzano sé stesse attraverso la cura per il proprio personale, dove ogni dipendente viene posto al centro di ogni discussione, dove le persone riescono a bilanciare con serenità vita privata e lavorativa, ma soprattutto dove la comunicazione sia argomento fondamentale nella formazione di ogni lavoratore. 

Rendiamoci conto che, raggiungere obiettivi all’interno di qualsiasi società comporta il doversi relazionare con colleghi, clienti e fornitori: in altre parole con altri esseri umani che, come noi, hanno sogni, aspirazioni, valori e credenze specifici, con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno quando interagiamo. 

Se l’interazione non è fluida si creano ostacoli, spesso insormontabili, al successo e si rischia il fallimento. Per questo motivo lavorare sulle proprie capacità comunicative, e soprattutto su quelle dei nostri dipendenti, è fondamentale per permettere alla propria società di diventare sempre più competitiva sul mercato. 

Saper comunicare bene giova sia al personale interno, che all’immagine stessa dell’azienda nei confronti di clienti e fornitori esterni con cui condurremo negoziazioni positive e svilupperemo rapporti di fiducia duraturi. 

Per concludere vorrei dire due parole a tutti quegli imprenditori che si sono soffermati a leggere queste poche righe: se davvero ci tenete al futuro della vostra impresa osservate il mondo che cambia, poiché se sta cambiando significa che l’essere umano ha raggiunto nuove consapevolezze e vuole vivere la propria vita privata e lavorativa in modo diverso. Le nuove generazioni si sono rese conto che per lavorare bene, bisogna essere felici e anche l’azienda è responsabile della loro felicità. Dipendenti felici significa maggiore produttività, che, unita ad una comunicazione strategica consapevole, può davvero fare la differenza nel mondo che verrà. 

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Concludiamo questo ciclo di 3 articoli sul raggiungimento della comunicazione efficace, cercando di riconoscere la propria cultura e le sue fonti, di capire come le idee si diffondano e di imparare a ricercare un common ground comunicativo.

Una vita sana richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica e ci chiede di riconoscere il fatto che essi siano stati acquisiti dall’acculturazione e dall’ambiente circostante: sono “entrati”, e noi ne siamo impregnati. Gli esseri umani sono pieni di memi, di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani o da fonti mediate.

La memetica, come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali, si occupa di come le idee o memi si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, proprio come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari. 

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri.  Al centro della comunicazione, infatti, non c’è solo la questione di chi abbia ragione sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri memi, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla. Questo comportamento è normale e risponde ai principi di conservazione della specie. 

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il comunicatore più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri memi attivi.  

Questa consapevolezza non significa rifiuto e non deve produrre automaticamente rifiuto di quanto appreso culturalmente, ma solo e semplicemente consapevolezza di quanto appreso, delle fonti, e della storia dei propri apprendimenti.  

Dopo avere svolto l’analisi del “cosa ho appreso”, quando e da chi, è necessario prendere queste tracce memetiche e sottoporle ad un vaglio fondamentale: cosa voglio tenere e consolidare da un lato, e di cosa mi fa bene liberarmi e perché, dall’altro.

Lo stesso tipo di analisi si può applicare agli apprendimenti organizzativi e alle regole vigenti in un’organizzazione, ai memi che vi circolano, in modo palese, o in modo più nascosto. 

Il successo della comunicazione dipende quindi dalla consapevolezza: 

  • delle fonti personali; 
  • delle fonti mediate; 
  • dei tempi dell’assimilazione, delle sue fasi significative e delle pietre miliari; 
  • della profondità di assimilazione nel Self di regole culturali, leggi e insegnamenti che si adottano; 
  • dalla capacità di riconoscere i fattori e le persone da cui si sono assimilate specifiche abilità, atteggiamenti e comportamenti oggi praticati sul lavoro e a livello professionale. 

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale). 

Nel metodo ALM, l’individuo, nella comunicazione, deve saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi, nuove energie, nuovi apprendimenti: aria pura per la mente

Il comunicatore è vivo quando è aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate, ed è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, quando accetta incondizionatamente la memetica altrui e rifiuta il proprio patrimonio. 

Dobbiamo essere consapevoli che le parole hanno un potere, il potere di aggregare interi “mondi di significato” e trasmettere valori attraverso le persone e attraverso il tempo. 

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra:

  1. tendenza all’accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale)
  2. tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale). 

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali: per esempio arrivare a tavola tardi e andarsene prima non è culturalmente corretto nella cultura italiana standard, ma è normale nella cultura americana. Si tratta di memi diversi che circolano, presenti in ogni comunicazione.

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano senza bussare, per osmosi, e diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa. 

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra. In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

Due soggetti che possiedono visioni identiche e obiettivi identici, però, non hanno bisogno di entrare in una vera comunicazione e non potranno costruire nulla di originale. Quando invece emergono diverse visioni, concezioni ed esigenze, la comunicazione entra in campo, così come la possibilità di costruire creativamente attingendo da più bagagli diversi. 

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni culturalmente diverse, facendo emergere sia le differenze latenti, che le basi comuni su cui poggiare. 

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto, ma anche mentre discutiamo su quale film vedere, o cosa fare nel weekend o in vacanza partendo da gusti e preferenze diverse.  

 Il successo della comunicazione dipende infine: 

  • dal grado di impegno/volontà di ciascun soggetto nella ricerca attiva di una soluzione di reciproca soddisfazione; 
  • dalla capacità di riconoscere esattamente i fattori che rendono diversa la posizione di partenza o gli interessi delle parti; 
  • dall’utilizzo delle diversità passate allo stato cosciente come motore propulsivo e creativo; 
  • dalla ricerca e costruzione delle basi comuni (common ground).
libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nell’articolo a seguire tratteremo diversi argomenti: in primis si parlerà della formazione alla comunicazione efficace, successivamente si tratterà l’irrigidimento cognitivo, come riconoscerlo e superarlo, ed infine si approfondirà il tema della cultura come stato di coscienza.

Un progetto o corso/percorso sulla comunicazione efficace e sullo sviluppo personale può e deve insegnare alle persone a scoprire ciò che non sanno, le cosiddette “incompetenze inconsapevoli”.

I grandi capitoli formativi per apprendere a ridurre l’incomunicabilità sono:

  • la nostra identità e le identità multiple, il nostro ruolo e i ruoli multipli e il modo in cui influenzano la nostra comunicazione.
  • codici comunicativi e gli stili comunicativi, sul piano sia verbale che paralinguistico e non verbale, sino alla comunicazione polisensoriale e multicanale. Imparare a comunicare anche con codici comunicativi diversi dai nostri abituali è fondamentale, poiché la comunicazione è una competenza, e va allenata portando le persone fuori dalla zona di comfort, a sperimentarsi su nuove modalità comunicative. 
  • comprendere come si manifestano i nostri valori, le convinzioni, le credenze più profonde e gli atteggiamenti centrali e periferici e come trasmetterli nel modo più efficace. Imparare a cercare la base comune (common ground). 
  • comprendere come il nostro vissuto relazionale, esperienziale ed emotivo può essere elaborato e analizzato per scoprire lezioni di vita e auto-casi.
  • Cercare momenti di vita vissuta comuni, common ground sul piano delle emozioni vissute o altri tipi di common ground esperienziale. 
  • imparare l’ascolto, l’empatia e le tecniche di ascolto attivo. 

Tutto ciò deve essere fatto tramite la formazione attiva ed esperienziale che ci porti verso il nostro obiettivo e risultato. La formazione in comunicazione è un’arte espressiva, deve dare voce alla comunicazione degli aspetti emotivi così come a quelli informativi, perché la realtà è composta da entrambi. 

Lo sviluppo della capacità comunicativa parte sempre dal rendersi conto che non sappiamo fare qualcosa (1), per poi prenderne atto (2), lavorarci sopra anche se l’esecuzione è ancora incerta (3), proseguire fino a che l’esecuzione diventa fluida (4).

Questa operazione di crescita personale continua può farci arrivare anche allo stato di flusso (flow), lo stato di grazia e di piacere che può accompagnare una performance, anche difficile, quando sentiamo che il nostro corpo e la nostra mente stanno rispondendo perfettamente e riusciamo ad entrare in risonanza con l’azione.

Uno dei punti importanti che un corso di comunicazione e sviluppo personale affronta, quando ben condotto, è il fatto di affrontare l’incomunicabilità.  Questo ci aiuta a cambiare la modalità che usiamo nel rapportarci agli altri, uscendo dalla nostra corazza pesante di stereotipi e aprendo nuovi canali di comunicazione, aiutandoci anche ad affrontare situazioni comunicative in cui si insinuano rabbia, litigi, incomprensioni. 

Gli errori o i fallimenti diventano momenti di apprendimento.

Il progresso nelle competenze porta con sé una forza espansiva, aumenta la nostra zona di comfort, fa entrare questioni prima per noi impossibili entro la nostra area di sfida, amplia la nostra visione di ciò che è possibile.

Un corso di comunicazione e sviluppo personale può incidere su: 

  1. le nostre credenze potenzianti e limitanti; 
  2. le nostre convinzioni più radicate su come sia bene agire; 
  3. le nostre abitudini
  4. la nostra identità e come la esprimiamo al di fuori dei nostri contatti comunicativi; 
  5. i nostri valori profondi, inserendovi il valore di una comunicazione di qualità come nuovo riferimento per una vasta gamma di situazioni di vita. 

Possiamo anche affrontare: 

  1. distorsioni comunicative
  2. ambiguità
  3. finzioni, anche attraverso l’osservazione dei segnali deboli che le persone emettono; 
  4. metafore e figure logiche, cioè gli strumenti che danno forza ed enfasi al messaggio, lo rendono più bello, meglio strutturato, più potente ed efficace. 

Quando una persona migliora la propria comunicazione, questo miglioramento si estende ad ogni ambito e territorio della vita, in famiglia e nel lavoro. È bene sviluppare le abilità, coltivare i talenti, dare spazio al potenziale personale di ciascuno, in qualsiasi direzione esso si possa esprimere.

Il problema dell’incomunicabilità ha origini sociali. Nel pieno dello sviluppo della propria espressività, il bambino e l’adolescente imparano che ad essere sinceri nascono problemi, e che dedicare tempo agli altri è una perdita di tempo, o almeno così viene loro fatto credere. Mentre i sistemi educativi formali sostengono l’importanza dell’espressività e della comunicazione, i comportamenti educativi reali insegnano invece esattamente il contrario.

Anche le aziende insegnano questo: la regola basilare del “non fidarsi” è tramandata dall’esperienza degli “anziani” d’azienda ai giovani, creando una condizione di allerta permanente, un clima di sospetto che permea ogni avvio di relazione e ogni comunicazione. 

Tuttavia, tale condizione di “allerta” deve diventare una scelta tattica consapevole da applicare in alcuni momenti, non sempre, e non uno stato costante fissato a priori, una “ingessatura inamovibile” o un blocco cognitivo che impedisce un percorso di crescita. 

Poco a poco, il blocco delle espressioni esterne diventa incapacità di riconoscere ciò che ci accade all’interno e all’esterno. La realtà dei fatti è piena di persone che non riescono a spiegare il proprio bisogno (se si acquista) o il proprio valore (se si vende). 

In queste condizioni, il manager ingessato si trova a fare business, a negoziare, a dover comunicare, esprimersi, a volte persino a dover capire gli altri e ascoltare, e non ci riesce.  Esiste quindi un meta-obiettivo per ogni persona e gruppo: lo sblocco delle rigidità cognitive

È indispensabile lavorare per riconoscere i propri stereotipi e le proprie credenze, agire attivamente per capirli, identificare i propri stati di incomunicabilità, impegnarsi per eliminarla o ridurla, non attendere che la comunicazione migliori passivamente o “per miracolo”, ma impegnarsi in prima persona, come se fosse una priorità assoluta. 

La comunicazione può essere concepita come un contatto tra diversi stati di coscienza, un ponte tra universi mentali distanti.  Ogni cultura mette il soggetto nella condizione di prestare più attenzione a certi aspetti del mondo e di trascurarne o ignorarne altri. 

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf e gli studi di psicolinguistica, lo stesso linguaggio forma una struttura della realtà e plasma la realtà che vediamo. 

Ogni essere umano percepisce la realtà in modo diverso, per cui non esiste “una realtà” ma più realtà, a seconda degli schemi mentali utilizzati per la percezione (multiple reality theory). Un fenomeno esterno (presunta realtà oggettiva) non produce automaticamente la stessa esperienza soggettiva del fenomeno (realtà percettiva). 

Questo per alcuni è inaccettabile: il rifiuto di tale concetto produce rigidità umana e manageriale. L’incomunicabilità nasce persino all’interno dell’individuo stesso, che si trova dissociato tra il proprio Sé cosciente e il proprio inconscio.  

L’individuo che non comunica con sé stesso ha difficoltà a riconoscere i propri stati emotivi, non capisce alcuni dei suoi comportamenti o non sa darsene una spiegazione, vorrebbe essere in un modo e si trova nella condizione opposta. 

Allo stesso tempo, l’individuo che “non si conosce” agisce senza consapevolezza di quali norme, principi, precetti, canoni, direzioni, usanze, linee guida o teorie implicite stia utilizzando. 

In conclusione, il successo della comunicazione dipende: 

  • dalla capacità di mettere in contatto tra di loro le componenti intraindividuali e sbloccare la comunicazione tra le diverse componenti del soggetto stesso; 
  • dal grado di consapevolezza acquisita dal soggetto stesso rispetto alla propria cultura, in termini di valori, credenze, schemi, atteggiamenti e altri tratti culturali acquisiti; 
  • dalla capacità di rimuovere il “rumore di fondo” intrapsichico e attuare una forte presenza mentale durante gli incontri e scambi comunicativi. 
libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo continueremo a parlare della distanza relazionale concentrandoci sui tre conflitti comunicativi (o incomunicabilità) che possono nascere dalla mancanza di codici comunicativi, sfere ideologico-valoriali e referenti condivisi.

Mancanza di codici comunicativi condivisi

Ogni volta che parliamo, emettiamo messaggi, ma non è detto che al destinatario arrivi esattamente il messaggio che noi stavamo pensando. Quando il codice comunicativo è “rotto” o non condiviso, abbiamo una rottura della comunicazione (es: stile comunicativo altoborghese vs. stile comunicativo diretto e offensivo, oppure stile pessimista vs. stile ottimista, ecc…)

Quando due stili invece sono diversi ma hanno alcuni gradi di similarità, la comunicazione si fa più piacevole, e possibile. È l’esempio di uno stile ottimista che incontra uno stile positivo, oppure di uno stile accademico che incontra uno stile scientifico, e tante altre possibilità. 

La completa rottura di codice, o completo breakdown comunicativo, avviene quando si utilizzano due lingue dalle radici molto diverse (per esempio tedesco vs. coreano) in un canale che non permette la visualizzazione del comportamento non verbale, e senza possibilità di traduzione.  

Utilizzare due lingue completamente diverse (o solo in parte diverse) nel parlato aiuta già a far passare qualche messaggio tramite il canale paralinguistico e le espressioni facciali: per cui, anche se non è possibile entrare nei dati della comunicazione in corso, è possibile coglierne i toni. 

I suggerimenti principali sulla D2 sono di cercare di capire i codici della controparte e fare sforzo di adattamento, accettare anche di negoziare i contenuti della conversazione, e per la parte tecnica della trasmissione, fare messaggi brevi, con pause, per favorire l’elaborazione dei messaggi stessi. 

Mancanza di sfere ideologico-valoriali condivise

Dato che non esistono due visioni del mondo assolutamente uguali, dobbiamo concedere alla comunicazione il suo status vero, di ponte tra realtà diverse, di collegamento tra diversità. 

Quando le diversità si fanno troppo ampie, incompatibili, la rottura della comunicazione diventa un fatto concreto. Spesso sono le sfide, quelle vere, come il far crescere figli, incontrare difficoltà economiche o lutti e malattie, a far venire fuori i valori veri e gli atteggiamenti latenti, che non sarebbero mai emersi senza la crisi. In questa condizione, è possibile che il legame si rafforzi ancora di più, o che invece si vada al breakdown o rottura della comunicazione e della relazione. 

Un suggerimento importante per la D3 è quello di comunicare sapendo in partenza che troveremo differenze valoriali, ideologiche, di atteggiamenti e di credenze, e di non pretendere di trovare nostri cloni, ma accettare di comunicare nelle diversità.

Mancanza di referenti comuni

Facciamo il punto. L’incomunicabilità viene descritta nel modello delle Quattro Distanze come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori. 

  • D1 – Prima Distanza: differenze nei ruoli e nelle personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi da rompere la comunicazione per non accettazione dei ruoli dell’altro o della relazione” 
  • D2 – Seconda Distanza: differenze sul tema della conversazione oppure incomunicabilità di codice, cioè il fatto di non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune. 
  • D3 – Terza Distanza: divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali di portata tale da rendere totalmente incompatibili tra i due comunicatori e da bloccare la comunicazione o provocare il ritiro di una delle due parti non appena emergono. 

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 (Distanza Referenziale). Il tema della D4, e della rottura della comunicazione sulla D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere avuto esperienze completamente diverse di una situazione, o di non aver mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo.

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica, infatti, è comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendoli come se fossimo la persona che parla. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali e corporee (bodily-felt sense). 

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.  E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa. 

In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Parlarsi chiaro vuol quindi dire anche spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare delle parole”, per spiegare i termini e la nostra immagine mentale collegata.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa, o simile, esperienza (es: partorire). Questo vale per tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente. 

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del felt sense, o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione. L’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i felt sense. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire è tra i felt sense delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi di quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici. 

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre attivo l’allarme che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nelle prossime righe riassumiamo i concetti del Modello delle Quattro Distanze, cercando di riunirle sotto quella che viene definita “distanza relazionale”, cioè l’insieme delle differenze e delle similitudini che creano rispettivamente lontananza o vicinanza comunicativa verso l’altro.

La distanza relazionale complessiva tra persone può essere visualizzata come la distanza che separa due quadrilateri, dove ciascun quadrilatero rappresenta un sistema-persona. 

distanza referenziale

Il soggetto A è portatore:  

  1. della sua biologia e fisiologia, della sua identità, ruolo e visione di sé; 
  1. ha il suo personale codice comunicativo, un personale repertorio linguistico-comunicazionale; 
  1. ha una propria ideologia, visione del mondo, valori e credenze; 
  1. ha un proprio passato, un proprio patrimonio di esperienze e vissuto. 

Lo stesso accade per il soggetto B:

  1. ha una sua biologia e fisiologia, una sua identità, ruolo e visione di sé, simili o diversi rispetto ad A; 
  1. ha il suo personale codice, un repertorio linguistico-comunicazionale, che può essere diverso o simile a quello di A; 
  1. ha una propria ideologia, una visione del mondo, dei valori e delle credenze, simili o diversi rispetto ad A; 
  1. ha un proprio passato, un proprio patrimonio di esperienze e di referenti, simili o diversi rispetto ad A. 

I due soggetti, quindi, esperiscono distanza, diversità. Possiamo rappresentare fisicamente tale distanza e diversità come un modello fisico, ove i due riquadri siano posti ad una certa distanza l’uno dall’altro. 

Ogni persona detiene un proprio repertorio, una “bolla di contenuti” che ricopre i punti cardinali della propria matrice. L’incontro tra persone, essenza stessa della comunicazione, è un incontro tra queste aree:  

  • l’incontro tra due biologie diverse e due diverse identità
  • l’incontro tra lingue, stili comunicativi e sistemi di codifica diversi  
  • l’incontro tra ideologie e visioni del mondo diverse  
  • l’incontro tra esperienze e storie di vita diverse. 

Il problema dell’incomunicabilità è proprio relativo a quanta area comune esista tra queste sfere. 

Una delle attività più significative è quella della definizione dei confini delle proprie sfere personali e della comparazione con quelle altrui, per valutare quale sia il possibile grado di interculturalità e di diversità, e quali siano le reali possibilità di comunicare. 

Comunicare, per definizione, è mettere in comune, condividere, e questo è possibile solo quando riusciamo a creare qualche forma di common ground, di “terreno comune”. Ogni volta che riusciamo a comunicare, si compie un miracolo. 

Le due principali attività nella definizione dei confini sono: 

  1. conoscere e rivisitare noi stessi, i nostri diversi ruoli, i modi con cui comunichiamo, i nostri valori, la nostra storia personale; 
  1. comprendere l’altro, sia con uno sforzo empatico che con una osservazione e un ascolto attivi, e in particolare comprendere le identità che si attribuisce, gli stili comunicativi che usa, i valori che trasudano dal suo parlare, le esperienze e la storia personale che emergono dal discorso. 

Delle due, certamente l’area del “conoscere sé stessi” è la più importante, perché le persone di fronte a noi cambiano, ma conoscere noi stessi meglio ci permette di avere almeno la metà di un processo comunicativo sotto controllo, la nostra. 

Ma cosa accade quando la distanza tra Self è assoluta?

Una relazione fallisce quando le persone che sono coinvolte non accettano in alcun modo il ruolo che l’altro propone, e avviene una negazione reciproca del ruolo. 

Questa casistica include i fenomeni per i quali la comunicazione viene interrotta o a volte nemmeno iniziata per via di ruoli incompatibili tra di loro e include anche i fenomeni di natura fisico-biologica, come il tentativo di comunicare concetti complessi ad un infante, o viceversa il tentativo di comunicare ad un anziano con capacità cognitive completamente deteriorate. 

Con portata inferiore, ma pur sempre inerente la rottura della D1, sono i dinieghi cortesi, formule di cortesia per dire no senza creare offesa esplicita, considerati una forma di down-keying conversazionale (riduzione del tono emotivo). I fenomeni di up-keying sono invece i momenti di incremento della temperatura emotiva di una conversazione. 

Continua…

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nell’articolo a seguire andrò a parlare della quarta ed ultima distanza, quella referenziale, che riguarda la differenza tra i vissuti che ogni persona porta con sé nella comunicazione. 

In questo modello, per vissuto si intende sia l’esperienza diretta del mondo esterno, sia la parte più interna ed emotiva, gli stati interiori che sperimentiamo e con i quali abbiamo a che fare quanto con gli oggetti esterni.

Possiamo dire che i referenti sono “ciò di cui facciamo esperienza”, nel senso di “esperire”, o experiencing. Sono, in altre parole, quelle entità fisiche o mentali con cui veniamo a contatto, e possono essere sia estremamente fisici (es, un’auto), che estremamente psichici o mentali, per esempio uno stato d’animo particolare. 

Questa distanza è quindi chiamata “referenziale” perché riguarda i “referenti” e riguarda l’intera storia della persona, le sue esperienze interne ed esterne, il vissuto emotivo interiore, le emozioni provate nel corso della storia personale, il tipo di sensazioni ed emozioni che hanno caratterizzato il passato, sino al presente. 

Si tratta in termini scientifici di grado di varianza tra tracce mnestiche (tipo di input presenti in memoria). Per esempio, chi non ha mai vissuto un jet-lag (disagio dovuto al cambio di fusi orari dopo voli transcontinentali) non potrà capire la reale sensazione che si prova, così come chi non ha mai sofferto di mal di denti non potrà certo capire una semplice descrizione, verbale o scritta, del mal di denti. 

Senza una quota di vissuto condiviso l’incomunicabilità è assicurata. E soprattutto, quando parliamo con qualcuno di cui non conosciamo il passato e il presente, meglio essere cauti nel fare affermazioni che riguardano la persona stessa o il suo contesto, fino a che il quadro non si è chiarito. 

Il vissuto referenziale dal punto di vista percettivo riguarda tutto ciò che si è visto, odorato, toccato, sentito sulla pelle e gustato. È un mondo fatto di sensi, di sensazioni, di filtri percettivi, che ci parla di come noi viviamo le cose e gli eventi. 

E come se non bastasse, nella distanza referenziale si collocano anche le memorie di quanto abbiamo vissuto in famiglia, i traumi, i successi, i valori. La nostra famiglia, ristretta o allargata, e persino la nostra nazione, ci hanno fornito modelli di comportamento e valori di sfondo che permeano la nostra vita.

In linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf (o Sapir-Whorf Hypothesis,), conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica“, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di comunicare determini il modo di pensare.

Possiamo dire con certezza che linguaggio, pensiero e realtà siano collegati tra di loro, per cui imparare un modo diverso di esprimersi e anche una lingua diversa, ci offre nuovi modi per osservare la realtà. Questo vale anche per i sottocodici comunicativi: se apprendo il linguaggio del pensiero positivo, anche la realtà potrà sembrarmi diversa. 

Ma quali sono quindi i tipi di “referenti” con cui possiamo venire a contatto, e sui quali possiamo, al momento opportuno, comunicare, o almeno provarci? 

  • Oggetti fisici del mondo reale: una caffettiera, un piatto di spaghetti, un taxi…
  • Stati mentali interiori: felicità, tristezza, depressione, gioia, aspettativa, curiosità… 
  • Scene della natura: una cascata, un lago, le onde del mare, un albero innevato… 
  • Scene dal mondo delle relazioni: litigi, feste, compleanni, matrimoni… 
  • Azioni: tutto quello che può essere rappresentato con un verbo, dove ogni verbo rappresenta una possibile sfumatura dell’agire e dell’essere (es: dormire, mangiare, rilassarsi, ecc…)
  • Stati sensoriali: ogni senso ci trasmette dei referenti o stati, e avremo quindi:
    • Referenti visivi.
    • Referenti olfattivi
    • Referenti gustativi
    • Referenti tattili o aptici (tutto ciò che ci trasmettono gli organi della pelle e il movimento, inclusi quelli legati al toccare altre persone): l’aptica è costituita dai messaggi comunicativi espressi tramite contatto fisico, quindi non verbale. Si passa da forme comunicative codificate, ad altre di natura più spontanea. L’aptica è un campo nel quale le differenze culturali rivestono un ruolo cruciale.
    • Referenti cinestesici (il movimento del corpo nello spazio che produce sensazioni)
    • Referenti uditivi
    • Referenti emotivi (gli stati emotivi): emozioni che proviamo ora, o che abbiamo provato in passato, sono certamente dei “referenti” sui quali si può comunicare o almeno tentare di farlo. Le emozioni e gli stati dell’umore sono oltre 200, per cui la capacità conversazionale di trattarli in tutte le loro sfumature, richiede impegno e addestramento. 

Per ciascuno di questi stati o “referenti” esistono esperienze molto soggettive: in pratica, realtà diverse si nascondono dietro alla stessa parola. Per quanto ci sforziamo di capire un’altra persona, ci sarà sempre qualche sfumatura della sua esperienza che differisce, anche in modo molto sottile, dalla nostra, per cui l’incomprensione e il disaccordo possono insinuarsi in questa “distanza referenziale” senza che ce ne accorgiamo. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Vediamo oggi in quali situazioni o aree di competenza è utile applicare il Modello delle Quattro Distanze della Comunicazione, che evolve o involve seguendo l’evoluzione o l’involuzione umana comunicativa e relazionale.

Il modello 4DM (4 Distances Model, o Modello delle Quattro Distanze) può essere utile: 

  • per le comunicazioni che avvengono in una famiglia; 
  • per le dinamiche di coppia; 
  • per migliorare le relazioni di aiuto come il coaching, il counseling, la terapia, la didattica, la formazione; 
  • nella leadership e nella direzione di team; 
  • per lavorare alle relazioni umane in ambienti sfidanti e confinati come i gruppi di lavoro che operano in ambienti estremi o ostili; 
  • nel caso della comunicazione per la sicurezza sui luoghi di lavoro; 
  • per la comunicazione tra persone di culture diverse, siano esse di tipo etnico, religioso, regionale o altro; 
  • per esaminare mondi di comunicazione poco esplorati come la comunicazione interspecifica; 
  • per la comunicazione uomo-macchina e tra uomo e intelligenza artificiale (AI); 
  • per avventurarsi in territori ancora ignoti all’essere umano, come quelli delle missioni spaziali di lungo periodo e dei viaggi prolungati in ambienti confinati;  
  • per anticipare futuri prossimi e affrontare le criticità comunicative che riguardano le sfide dell’umanità, come la creazione della pace ove vi sia conflitto; 
  • per progetti molto concreti di collaborazione industriale tra nazioni e tra imprese di diverse nazioni; 
  • per fare ricerca e sviluppo vera, che assorba concetti e culture anche da discipline molto diverse, creando gruppi di lavoro veramente efficaci anche se interdisciplinari e interculturali; 
  • e in un sogno non tanto lontano… per stabilire basi comunicative con culture e civiltà ancora non scoperte ma che un giorno potrebbero manifestarsi, e con le quali ogni forma di comunicazione nota potrebbe risultare inutile o non funzionante. 

Tutto ciò non è fantascienza: sono stati scoperti molti pianeti situati nella “zona abitabile” o golden lucky zone, del proprio sistema solare, cioè non troppo vicino al proprio sole, né troppo lontano. 

Questo dato offre spazio a forme di possibile comunicazione e contatto sulle quali le Quattro Distanze possono fare luce. Ma anche senza andare a cercare mondi lontani e remoti, la nostra stessa Terra è un luogo in cui le persone, homo sapiens con homo sapiens, non si comprendono, si ammazzano per un nulla apparente, e i conflitti scoppiano in modo devastante, tra gruppi etnici, religiosi, nelle famiglie, nelle coppie, tra gruppi di tifoserie opposte, tra nazioni, e tra gang nella stessa città, per cui riconoscere le incomunicabilità e combatterle è davvero una missione fondamentale. 

Nel campo del Business, un dato di fatto molto semplice è che se domina incomunicabilità non si vende, non si fanno affari, tra venditore e cliente non ci si capisce, non si realizza proprio niente di niente. A livello di ascolto, non vengono nemmeno capite le esigenze vere, forti, dei clienti e dei consumatori.  

I possibili messaggi utili e le informazioni importanti non passano la barriera comunicativa, per cui i clienti rimangono insoddisfatti, o meno soddisfatti di quanto potrebbero essere. I prodotti vengono progettati male, o peggio di quanto potrebbero essere progettati se solo vi fosse una buona comunicazione con i clienti, soprattutto nella capacità di ascoltarli e coinvolgerli nella ricerca e sviluppo (R&D). 

Questo processo può essere esaminato con il modello delle Quattro Distanze perché aiuta a capire che le distanze non sono un fatto “statico” ma dinamico. Esse cambiano, si evolvono, a volte negli anni, a volte in frazioni di secondo (soprattutto per gli stati umorali ed emotivi), a volte “involvono”, nel senso che peggiorano man mano che il tempo fa scoprire cose nuove dell’altro e lo stress mette alla prova il nostro rapporto, costringendoci alle corde e facendo venire fuori parti della personalità che altrimenti non sarebbero uscite.  

Le persone cambiano, si evolvono, le loro identità, i loro valori, le loro emozioni, persino i loro corpi, sono soggetti a cambiamenti, e questo incide sulla qualità della comunicazione. 

Confrontarsi su un modello quindi è sempre produttivo. 

Moltissimi antropologi e psicologi hanno esposto concetti che “nascondono” modelli, ma non hanno mai prodotto un vero e proprio schema operativo, grafico, visuale, comprensibile.

Perché gli schemi? Perché manager e operatori hanno bisogno di modelli operativi: le loro estrazioni professionali li hanno abituati a comprenderli, e uno schema ci offre anche vere e proprie “etichette”, parole, concetti utilizzabili, linguaggi comprensibili, e lo stesso vale per le persone che operano come promotori di relazioni d’aiuto (educatori, consulenti, terapeuti). 

Il modello delle Quattro Distanze è nato per questo scopo, ma dalla prima esposizione ad oggi ha subito notevoli evoluzioni e miglioramenti, e continua a cambiare includendo nuove aree di ricerca, arricchimenti, chiarificazioni e confronti con altre scienze.  

È utile quindi per far evolvere la comunicazione di persone e manager, e per chiunque trovi che comunicare bene e cooperare sia una necessità vitale. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: