Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Continuiamo a parlare di comunicazione e negoziazione interculturale cercando questa volta di concentrarci sulla percezione di noi stessi per sbloccare le rigidità cognitive e prendere coscienza della nostra personale visione del mondo.

La comunicazione interculturale può essere concepita come un contatto tra diversi stati di coscienza, un ponte tra universi mentali distanti.

Ogni cultura mette il soggetto nella condizione di prestare più attenzione a certi aspetti del mondo e di trascurarne o ignorarne altri.

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf e gli studi di psicolinguistica, lo stesso linguaggio forma una struttura della realtà e plasma la realtà che vediamo.

Ogni essere umano percepisce la realtà in modo diverso, per cui (per quanto difficile sia da accettare) non esiste “una realtà” ma più realtà a seconda degli schemi mentali utilizzati per la percezione (multiple reality theory). Dieci persone diverse, in un viaggio comune, daranno dieci resoconti diversi dello stesso viaggio, pur essendo stati esposti agli stessi fenomeni esterni. Un fenomeno esterno (presunta realtà oggettiva) non produce automaticamente la stessa esperienza soggettiva del fenomeno (realtà percettiva).

Questo per alcuni è inaccettabile, il rifiuto di tale concetto produce rigidità umana e manageriale, conflitti, guerre, disastri economici, e fallimenti aziendali.

L’incomunicabilità nasce persino all’interno dell’individuo stesso, che si trova dissociato tra il proprio Sè cosciente (ad esempio l’identità professionale) e il proprio inconscio (sede dei sogni, aspirazioni, pulsioni ancestrali ed istinti).

L’individuo che non comunica con se stesso (ad esempio, nel dialogo interiore tra componente razionale, emozioni e istinto animale) ha difficoltà a riconoscere i propri stati emotivi, non capisce alcuni dei suoi comportamenti o non sa darsene una spiegazione, vorrebbe essere in un modo – es: estroverso, assertivo, tranquillo, integrato, a suo agio, sicuro, flessibile – e si trova nella condizione opposta, non riuscendo a capire perché.

Allo stesso tempo, l’individuo che “non si conosce” applica regole e schemi culturali senza esserne conscio, agisce senza consapevolezza di quali norme, principi, precetti, canoni, direzioni, usanze, linee guida o teorie implicite stia utilizzando.

Il problema della incomunicabilità ha origini sociali. Nel pieno dello sviluppo della propria espressività il bambino e l’adolescente imparano che ad essere sinceri nascono problemi, e che dedicare tempo agli altri è una perdita di risorse. Nascono gli stereotipi, le regole preconfezionate, gli schemi mentali da fluidi diventano rigidi e si consolidano sotto forma di credenze e dogmi.

Mentre i sistemi educativi formali sostengono l’importanza dell’espressività e della comunicazione, i comportamenti educativi reali insegnano invece esattamente il contrario: chiudersi, difendersi, non lasciarsi andare, essere sospettosi, non far capire come ci si sente “altrimenti gli altri se ne approfittano”.

Anche le aziende insegnano questo (regola basilare del “non fidarsi”) tramandata dall’esperienza degli “anziani” d’azienda ai giovani. Accade infatti che nella realtà dell’impresa, l’onestà altrui non sia assolutamente da dare per scontata, le intenzioni nemmeno, e si crei una condizione di allerta permanente, un clima di sospetto che permea ogni avvio di relazione e ogni negoziazione.

Questo clima ha solide basi nella realtà dei fatti e non è una pura costruzione.

Tuttavia, tale condizione di “allerta” deve diventare una scelta tattica consapevole e non uno stato costante fissato a priori, una “ingessatura inamovibile” o blocco cognitivo che impedisce un confronto. Solo da un confronto aperto e da reali prove comportamentali si potrà capire se la controparte ha intenzioni serie o è affidabile.

Molti manager sono invece ingessati in modo inamovibile in una condizione di chiusura e rigidità (irrigidimento cognitivo) e questo impedisce loro di negoziare efficacemente. Poco a poco, il blocco delle espressioni esterne diventa incapacità di riconoscere ciò che ci accade all’interno.

La realtà dei fatti è piena di persone che non riescono a spiegare il proprio bisogno (se si acquista) o il proprio valore (se si vende).

In queste condizioni, il monolite ingessato si trova a fare business, a negoziare, a dover comunicare, esprimersi, a volte persino deve capire gli altri (compito arduo) e ascoltare (compito quasi impossibile), e non ci riesce.

Esiste quindi un meta-obiettivo per ogni persona e gruppo: lo sblocco delle rigidità cognitive.

È indispensabile lavorare per riconoscere i propri stereotipi e credenze (o, come affronteremo nel volume sulle tecniche avanzate, i propri “prototipi cognitivi”), agire attivamente per capirli, identificare i propri stati di incomunicabilità, impegnarsi per eliminarla o ridurla, non attendere che la comunicazione migliori passivamente o “per miracolo”, ma impegnarsi in prima persona, come priorità assoluta.

Libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

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