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©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Riprendere possesso dell’intera vita: il lavoro sui “copioni di vita” (Life Scripts) per sganciarsi da modelli tossici e avviare nuovi tempi del nostro film

Se sei un virus, la tua vita è molto semplice, il tuo copione di vita altrettanto. Cercherai di infettare qualcuno, diffonderti, replicarti, poi morirai. Ma il tuo DNA, se la strategia è vincente, sarà sopravvissuto.

Se sei una farfalla, il tuo copione di vita è altrettanto semplice. Non puoi evitare di essere prima un bruco, di essere “brutto e ripugnante”, ma poi evolverai in qualcosa che è in grado di volare, di librarsi in aria, con colori a volte bellissimi. Nel tuo copione di vita c’è scritto “evolvi, trasformati, vola, riproduciti, muori, segui le leggi della natura”. Ma, attenzione, c’è anche scritto “scappa dai predatori”.

Man mano che saliamo nella complessità degli esseri viventi, i copioni si fanno più ampi, diversificati. Per l’essere umano, solo fino a qualche generazione fà, e non per tutti, il copione era predefinito. 

Servono braccia in campagna, farai il contadino, ti sposerai, farai altri figli-operai, andrai in Chiesa, e via così. Se eri nato in Kenia o in Giappone le cose sarebbero andate diversamente ma sempre secondo un copione nel quale avevi davvero poca voce in capitolo.

Il miracolo avviene quando invece puoi scorrere il tuo film di vita come un osservatore esterno. Puoi renderti conto che ruolo stai giocando. Cominci a chiederti in che “tempo” siamo di questo film. Comincia a prendere forma la coscienza su quale sia il personaggio che stai inconsapevolmente recitando (es, l’eroe, l’avventuriero, lo sfortunato, l’impotente, il nobile). E, cosa veramente non da poco, decidi di cambiare copione o farne cambiamenti in una direzione “tua”, decisa da te.

Vi sono molte tecnicalità in questo lavoro e non a caso tali operazioni sono mestieri specifici, come il coaching, il counseling, e (per alcuni casi) la psicoterapia. 

Tuttavia non è necessario essere malati per lavorare sui propri copioni di vita e sugli “spezzoni di copione”. Appropriarsi sempre più intensamente della propria vita è sano, a prescindere da qualsiasi condizione tu sia.

Quando un atleta scende in campo, sta già mettendo in azione il suo copione personale ed entra in campo non solo un paio di gambe ma anche la sua immagine mentale di sè e l’idea che si è fatto della probabilità di vincere o di perdere. Entra in campo, in pratica, anche la sua “aura”, per quanto intangibile.

Eric Berne, già agli albori di questa consapevolezza, parlava della necessità di “disattivazione dei copioni di vita” per aiutare le persone ad uscire da copioni tossici e perdenti. 

Eric Berne[1] distingueva tre grandi categorie di persone, “perdenti” (losers), non-winners” (non-vincenti), e “winners”, dove “un vincitore è definito come una persona che adempie il suo contratto con il mondo e con se stesso“. 

Per Berne, l’oggetto della psicoterapia era quello di “spezzare i copioni e trasformare i perdenti in non vincitori (“Fare progressi”) e i non vincitori in vincitori (“Stare bene”, “Ribaltare”, e “Vedere la luce”).

Secondo Berne, i copioni si costruiscono in tenerissima età, già dai 2 anni, e formano una sorta di imprinting che l’individuo seguirà per tutta la vita, se non avviene un’azione che nel metodo HPM chiamo “enlightment” o illuminazione e presa di consapevolezza. 

Spesso questa presa di consapevolezza è uno shock, ma uno shock che fa bene.

Alcuni esempi di “ingredienti” di un copione perdente si possono riconoscere sia dalle conversazioni che dai pensieri che emergono in un colloquio di counseling

  • Io non merito
  • Io non posso
  • Non sono all’altezza
  • Forse
  • Non si può
  • Non va bene
  • Tanto non serve a niente

Può contenere anche ingiunzioni come:

  • Lamentati molto e spesso
  • Tu no

Alcuni esempi di un copione vincente possono includere pensieri del tipo

  • Sii coraggioso nella vita
  • Vivi a pieno
  • Non tirarti indietro
  • Le cose si possono provare e sbagliare senza che questo ti faccia diventare un perdente
  • Tu vali a prescindere dai tuoi beni materiali
  • Tu puoi risplendere spiritualmente
  • E’ bello circondarsi di persone positive
  • Tu meriti felicità
  • Non devi dimostrare niente a nessuno.

Esercizio

Immagina per un momento di essere un robot con una scheda di memoria inserita alla base del cranio, che si può togliere e inserire a piacimento. 

Immagina come cambierebbe il tuo modo di camminare, di decidere, di fare la tua giornata, o il tuo anno, inserendo la scheda “atteggiamento mentale positivo ed energie elevate” e come cambierebbe se inserissimo la scheda “sono un perdente, atteggiamento mentale negativo, basse energie”.

Ecco. Cosa ci sia essere scritto in quella scheda, è in larga misura stato definito dalla nascita e modellato da genitori e società. 

Prova a scrivere cosa vorresti vi fosse codificato in quella scheda:

Ruoli graditiSensazioni graditeAzioni gradite
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   

Possiamo auto-programmarci per diventare noi stessi gli autori di un programma di vita che ci giri dentro in modo migliore di quello appreso sinora? Si

Le persone vivono spesso degli Script e programmi scritti da altri per loro e per soddisfare bisogni altrui, e non delle vere vite decise da loro[2].

Sulla nostra vita, noi possiamo impegnarci per riscrivene almeno una parte, e perché no, una parte molto ampia e significativa.

Ma come si cambia un copione di vita. Innanzitutto serve molto esercizio. E questo esercizio deve aiutarci ad esplorare i nostri limiti, conoscerli, avvicinarsi ad essi, e gradualmente superarli.

La “consulenza di processo personale” (CPP) e altre forme di analisi si prefiggono di mettere in moto i meccanismi del processo di crescita personale o fisica e dare plasticità e impulso a questa crescita. Crescita che non è solo o per forza avere di più, ma avvicinarsi di più alla vita che ha senso vivere.

Esiste un vero e proprio “allenamento al Sentire” e uno al progredire. Come fa notare Kabat-Zinn, è una questione di incontro con i propri limiti, questo sia nel corpo (che spesso è una vera incarnazione o messa in scena di un copione, per fattezza e aspetto) che nel modo di pensare:

il corpo di ciascuno è diverso: perciò ciascuno deve imparare a conoscere i propri limiti. E il solo modo per imparare a conoscerli è esplorarli delicatamente e consapevolmente per un periodo di tempo prolungato.

Facendo questo scopri che, qualsiasi siano le tue condizioni fisiche, quando lavori con perseveranza e consapevolezza in prossimità dei tuoi limiti, quegli stessi limiti tendono a recedere. Per esempio, il punto fino a cui puoi portare una certa posizione o il tempo per cui sei in grado di mantenerla non sono dati fissi e immutabili. Perciò, anche le tue opinioni su quello che puoi o non puoi fare non devono essere rigide: il tuo corpo, se lo ascolti attentamente, ti può rivelare una realtà in continuo mutamento.[3]

Così come si può fare con il corpo, si può fare questo allenamento sottile sulle emozioni, sulle nostre destinazioni di vita, fino ad arrivare a farcele il più possibile amiche e compagne, volute e dirette da noi.

Parlando di libertà, non esiste prigione peggiore del pensiero che le cose – corpo, mente, anima, relazioni, storia di vita – siano immutabili per sempre e che a noi non resti che rassegnarci senza lottare. 

Possiamo scoprire i nostri stati dell’ego che operano in modo “covert” (cioè all’oscuro di noi, in modo sotterraneo), e solo allora ce ne potremo disfare.[4]

Uno spirito combattivo, una forza consapevole del proprio valore, delle possibilità che possiamo innescare, la forza della volontà e la continuità nel crescere, sono una base fondamentale per una vera e nuova libertà.

Disattivazione dei Copioni di Vita, anche in azienda

“Niente ha maggiore influenza psicologica sul loro ambiente 

e specialmente sui loro figli, della vita non vissuta del genitore”. 

Carl Gustav Jung. 

Con questa frase, Jung ci ammonisce, ci segnala un possibile enorme rischio per la libertà individuale. Il fatto che un genitore proietti sui figli tutte le speranze non andate a buon fine, tutti i sogni che non è riuscito a realizzare, tutte le lauree o diplomi mancati, specializzazioni o abilità che non è riuscito nella sua vita a portare avanti. 

Tutto questo carico viene trasferito sui figli, che portano nella loro vita un enorme peso: soddisfare le aspettative trasmesse, su quanto i genitori non hanno saputo essere. 

Questo succede anche con estrema forza nelle aziende, nei passaggi generazionali, e nel come vengono a formarsi i manager nell’Acquario Comunicativo Aziendale in cui sono immersi.

Ma torniamo alla partenza. I genitori, consapevolmente ma molto più spesso inconsapevolmente, creano copioni di vita (Life Scripts), scrivono copioni di film immaginari dei quali i figli possono solo essere comparse ma mai veri protagonisti e registi. Non accade sempre, non accade per tutti, ma è un fenomeno molto frequente e pervasivo persino in tutto il mondo animale.

I leoni giocano a lottare con i leoncini per insegnargli a lottare, nella loro mente quel leoncino deve saper lottare perché nel codice genetico è scritta la pulsione a far continuare la specie, quindi si prodiga per far diventare il proprio figlio un forte capobranco e fare parte del clan, e non certo finire in un circo. I programmatori insegnano ai propri figli a programmare, magari con il gioco, i terroristi fanno giocare i loro figli con bombe e fucili e si vedono foto di famiglie intere di integralisti con bambini in divise militari e armati fino ai denti. E così si formano terroristi che forse in una famiglia diversa sarebbero diventati insegnanti, militari che non volevano essere militari, medici che diventano medici per emulazione ma soprattutto per soddisfare i Life Scripts assorbiti nella famiglia di provenienza.

Copioni pieni di paure generano vite piene di paure, da cui sottrarsi prima possibile.

Sono più le cose che ci spaventano di quelle che ci minacciano effettivamente, e spesso soffriamo più per le nostre paure che per la realtà. 

Lucio Anneo Seneca,Lettere a Lucilio, 62/65

Un grande moto di emancipazione per ogni buon genitore è cercare di non infliggere i propri insuccessi, fermarsi dal volere che i figli siano “ciò che non si è potuto essere”, cercare di capire quali sono le vere attitudini e aiutare ad esprimere il vero potenziale umano della persona.

Per il lato dell’essere “in vita” e quindi persone che hanno certamente e per forza subito qualche forma di “Life Script”, magari inconsapevole, c’è un grande lavoro da fare per ripulirsene. Soprattutto, perché i “Life Script” prendono anche forma di “atteggiamenti appresi”, es pressapochismo, o indecisione, o arroganza, tutto quanto si trasmette verso i figli con l’esempio e con l’immersione nell’acquario familiare e non tanto con messaggi espliciti.

Nelle aziende, i “modelli di Leadership” (es, buonista, arrogante, decisionista, attendista, etc) sono quanto di più subdolo possa esistere e passano da persona a persona spesso per emulazione, rimanendo nella cultura aziendale per generazioni dopo generazioni di manager. Non se ne vanno dall’azienda se non con interventi di formazione seria ed esperienziale, coaching e non certo tenere “ammonizioni verbali al cambiamento” che nessuno veramente nessuno ascolta.

Capire a quali messaggi impliciti siamo stati esposti, quali modelli di vita abbiamo respirato, “cosa abbiamo respirato da chi”, per capire anche di cosa vogliamo adesso liberarci con presa d’atto di libertà, è un gesto eroico e coraggioso. E non basta farlo una volta. 

“Possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi.” 

(William Shakespeare, da “Il mercante di Venezia”)

Se vogliamo chiudere con un modello appreso, o se vogliamo riprendere in mano il Copione di vita, o procedere alla “disattivazione dei Copioni di vita” che stiamo vivendo nostro malgrado, serve impegno, tempo, supporto professionale.

Quando un “pattern” (modello comportamentale o di atteggiamento) viene riconosciuto come tale, il fatto di decidere di tenerselo o disfarsene ha un suo costo psicologico. Incluso il costo e boccone amaro ma necessario, di comprendere che non stiamo “offendendo i genitori e antenati” se decidiamo di prendere in mano le redini della nostra vita, ma anzi questo è un nostro diritto inviolabile. Una volta che decidiamo di cambiare, il cambiamento richiede esercizio continuativo, coaching, counseling, formazione, e tanta costanza. Non solo chiacchiere. Perché il passato che abbiamo dentro, non si rimuove come un abito esterno, ci vive dentro, ed è ciò di cui siamo composti.


[1] Berne, E. (1961) Analisi transazionale e psicoterapia, Roma, Astrolabio-Ubaldini, ISBN 978-88-340-0019-9

Berne, E. (1966) Principi di terapia di gruppo, Roma, Astrolabio-Ubaldini, ISBN 978-88-340-1066-2

Schiff, J.L. et al. (1975) Analisi transazionale e cura delle psicosi, Roma, Astrolabio-Ubaldini, ISBN 978-88-340-0679-5

Berne, E. (1977) Intuizione e stati dell’Io, Roma, Astrolabio-Ubaldini, ISBN 978-88-340-1066-2

[2] Steiner, Claude M., Scripts People Live, Grove Press, Reprint Edition, 1990

[3] Kabat-Zinn, Jon (2016). Vivere momento per momento. Milano, Garzanti, p. 148-149.

[4] Helen H. Watkins, John G. Watkins  Ego States, Theory and Therapy

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

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L’ascolto delle emozioni nel corpo, via dal “Deserto Emozionale”

Sempre Reich è responsabile dell’elaborazione del concetto di “Deserto emozionale”. Lo troviamo nei gruppi, nelle famiglie, a volte nelle aziende, o persino dentro di noi.

Una vita priva di emozioni, o di emozioni molto deboli, annebbiate, la negazione dei propri bisogni, degli impulsi naturali, la corazza caratteriale, un progressivo impoverimento della vita affettiva, un crescere dell’immobilità. 

Allora, arriva la povertà emozionale, l’anestesia da qualsiasi cosa compreso il senso di vivere, con un sottofondo costante di emozioni negative soffocate le cui ragioni restano inascoltate. Viene meno la capacità di entusiasmarsi e di gioire. 

Nel “funzionamento corazzato”, in cui sensibilità, grazia, armonia e spontaneità naturali sono bandite e perseguitate.

Allora, una vita viene perduta, sprecata, nel silenzio e nella sofferenza.

È importante invece partire dall’ascolto. Dall’auto-ascolto prima di tutto.

E ritornare ad attività fisiche in cui la sensibilità del movimento, la grazia e armonia, possano fare breccia nell’anima passando per il corpo. 

Dalle arti marziali alla danza, dal Tai-Chi al Daoshi, fino alla Bioenergetica, e tante altre forme espressive: ogni movimento armonioso aiuta a ripristinare le condizioni di sensibilità umane.

L’ascolto delle proprie emozioni e come si manifestano nel corpo è un processo complicato e delicato, che può essere allenato per aumentare la propria coerenza comunicativa, comunicare in modo più allineato e vero rispetto ai nostri sentimenti. 

Le tecniche di “elicitazione” emotiva (far nascere un’emozione) si perdono nella notte dei tempi, codificate dal teatro greco (Aristotele, nei suoi lavori su Poetica e Retorica, parla proprio di questo), e sono oggetto di studio anche della psicologia contemporanea[1].

La psicologia scientifica, pur con tutti i suoi meriti, si perde spesso nei meandri della parte “tangibile” dell’emozione (neuroscienze, attivazioni di zone cerebrali e di sistemi ormonali) e perde il senso esistenziale profondo, di segnalatore di una vicinanza o lontananza dalla vita che vogliamo veramente. Il sentire corporeo, al di là dell’espressione verbale, “a parole” di come ci si sente, è un sentire molto più vicino alla verità.

Questo “sentire corporeo” è alla base dei lavori pionieristici sulla Bioenergetica di Alexander Lowen, e del Focusing di Eugene Gendlin.

Anche la psicologia si interessa sempre più al corpo.

Il settore di studio della psicoterapia corporea è quel settore di studio che non si limita alla parola o al colloquio terapeutico, ma cerca nel corpo risposte che la voce non potrà mai dare da sola. 

Il lavoro di George Downing[2] è un magistrale esempio di integrazione tra procedure verbali (colloquio terapeutico) e lavoro sul corpo. Il lavoro sul corpo può prendere forme anche molto blande e sottili, come la semplice osservazione del respiro, per passare poi anche a manovre tattili o di amplificazione dei movimenti. Tutte queste azioni sono sempre e comunque non tanto di tipo ginnico ma volte ad amplificare la libertà di sentire, la possibilità di “liberarsi dalle oppressioni represse nel corpo” e tornare ad un contatto vero con se stessi. 

Domande che il terapeuta pone sono ad esempio, in genere parlando di sensazioni corporee, e dopo una fase di colloquio verbale:

  • Che cosa provi?
  • Che cosa provi nel tuo corpo?
  • Dove si manifesta questa sensazioni di… (segue “rabbia”, “speranza”, e altre)?
  • Con che cosa sei in contatto?
  • Che sensazioni corporee avverti?
  • Quali emozioni provi in questo momento?
  • Che associazioni ti vengono in mente su questo? (ad esempio, dopo avere osservato che il respiro è leggermente affannoso o corto)

Questo è solo un cenno di un sistema molto complesso che può includere manovre fisiche (collegate anche al metodo Feldenkreis), attivazioni ed esercizi soprattutto esperienziali, che richiedono cura e studio da parte di chi li dirige.

Come spiega lo stesso Downing, 

In altri termini, con questo metodo le emozioni che sorgono durante il processo corporeo vengono esaminate con attenzione e cura. Ma lo scopo principale non è la catarsi o la liberazione. Si perseguono invece, principalmente, almeno tre finalità: far acquisire al paziente una chiara percezione dell’emozione con tutte le manifestazioni corporee che essa presenta; aiutarlo nella ricerca di un linguaggio minimo capace di descriverla adeguatamente; fargli compiere almeno un primo passo verso la scoperta dell’oggetto dell’emozione (il suo referente).[3]

Molto interessante per il nostro concetto di libertà è il fatto che l’emozione venga considerata una parte visibile (il segno) di processi molto remoti e più sbarrati al nostro accesso, processi interni (i referenti). 

Noi siamo ripieni di casi di vita, ricordi, ambizioni, aspirazioni negate, successi dimenticati, e tanto altro, elementi con i quali entrare in contatto è una conquista e atto di grande libertà.

Ridurre la tensione muscolare cronica delle persone, cercare di alleviare i blocchi che impediscono un libero flusso respiratorio, ampliare il movimento corporeo e ridare libertà al corpo e al pensiero è uno dei nostri passaggi verso la libertà profonda.

E questo non deve rappresentare solo un vago sogno, ma, come ci ricorda lo studio della psicologia del tempo, per scatenare motivazione occorrono “attività realistiche tese alla fruizione di mete ravvicinate e concretamente manipolabili dal soggetto[4]”.

In altre parole. Obiettivi concreti e attualizzabili. Questo è ciò che qui anticipiamo, e soprattutto nei nostri corsi si apprende a fare manualmente, concretamente, “hands-on”.


[1] Coan, J. A., & Allen, J. J. B. (2007). Handbook of emotion elicitation and assessment. Oxford ; New York: Oxford University Press.

[2] Downing, George (1995). The Body and the Word. A direction for Psychotherapy. Edizione Italiana: Il corpo e la parola. Astrolabio Ubaldini, Roma.

[3] Ibidem, p. 54.

[4] Ricci Bitti, P.E., Rossi, V. Sarchielli, G. /1985) Vivere e progettare il tempo. La prospettiva temporale nel comportamento umano. Milano, Franco Angeli, p. 125.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

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©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Corazze emotive e corazze muscolari. Scopriamo il contrario della “forza” e una via per la libertà vera

Con il termine di “corazza” sviluppato da Reich, si indica una modalità con cui si manifesta, in modo fisico e mentale, la repressione emozionale.

Reprimere le emozioni come indica il termine stesso, produce uno scudo sia fisico che mentale dietro il quale la personalità, la “verità” di noi stessi, si nasconde per proteggere l’individuo.

La corazza ha la tendenza a “fossilizzarsi” e a non accompagnare in modo armonico lo sviluppo dell’individuo durante il corso della vita.

È in questa fase che la corazza cessa di svolgere il suo ruolo primario di difesa e si trasforma in una mera “zavorra” che limita la libertà e la felicità dell’individuo.[9]

Abitare davvero un corpo significa “sentire pulsare” il proprio corpo e coglierne le “sensazioni sottili”, non nascondersi da esse. 

Parliamo di sensazioni sottili, perché le sensazioni forti come il picchiare la testa contro un palo, avere la febbre alta, avere enorme senso di fame, avere grande desiderio sessuale, sono troppo evidenti, e possono diventare terreno di ricerca solo dopo avere esplorato quelle sottili. 

Il contatto con il corpo è un territorio delicato. 

Sentire il  respiro, sentire i muscoli contrarsi e distendersi, capire e sentire cosa provo quando mi alleno o mi muovo, sentire i dettagli della nostra flessibilità articolare, percepire lo stato di forma muscolare e aerobico, è qualcosa di molto superiore al mangiare-lavarsi-dormire che spesso costituisce l’unico “trattamento” che riserviamo alla nostra “carcassa”. 

Anche se facciamo palestra o attività fisica, non è detto che abbiamo mai riflettuto sul concetto di “corazza muscolare” e “corazza caratteriale”.

La corazza muscolare rappresenta, diversamente da quanto possa apparire, il contrario dell’essere forti. Comprende tutte le nostre contratture involontarie, le contratture cervicali che ci provocano poi mal di testa, la contrattura dei muscoli della mandibola che abbiamo sotto tensione. Le contratture determinano una posizione chiusa, di difesa, che provoca persino deformazioni della postura e tanti altri danni.

Persino durante una telefonata possiamo notare che è facile arrivare ad avere crampi o dolori al braccio o spalle o trapezi, perché la tensione emotiva si è trasformata in tensione muscolare, senza che ce ne accorgiamo “durante”. Questa tensione si scioglie solo al termine della telefonata. Allora, e solo allora, capiamo di avere avuto una tensione cronica o acuta, silente, ma esplosiva appena “cediamo” e cala lo stress.

Lo stesso accade per interi brani di giornata, ad esempio la riunione in cui inspiegabilmente abbiamo le ascelle sudatissime pur non facendo attività fisica cosciente, e molti mal di testa di origine sconosciuta ma correlabili alla corazza muscolare.

La corazza caratteriale è un altro grande nemico. A forza di proteggerci dagli attacchi del mondo esterno “cattivo” e ingiusto, ci irrigidiamo al punto da diventare rigidi caratterialmente, con tutto e tutti, anche con chi non lo merita, e anche nelle situazioni in cui ci farebbe bene invece essere completamente rilassati, comodi, tranquilli.

Relazionalmente, diventiamo assertivi e persino aggressivi anche quando potremmo essere calmi, sereni e disponibili. Finiamo per far male alle persone cui vogliamo più bene o che vogliono più bene a noi.

La libertà è “mettere su la corazza” quando siamo contornati da pericoli, e farlo in modo assolutamente cosciente e consapevole, e liberarci da quel peso quando non serve. Questa è libertà di “essere”, libertà fisica ed esistenziale.

Altrimenti, le energie che dovremmo spendere nella vita, se ne andrebbero tutte in “alimentazione permanente della corazza” e di noi rimarrebbe poco meno di niente.

Il lavoro sulla “corazza” si deve agli studi pionieristici di Reich[1], che identificò sette segmenti della corazza, con caratteristiche specifiche:

  • oculare
  • orale
  • cervicale
  • toracico
  • diaframmatico
  • addominale
  • pelvico.

Ogni segmento, inoltre, è composto da tre strati che, dal più superficiale dal più profondo, sono:

  • la facciata
  • lo strato secondario o intermedio
  • il nucleo.

Ciascuno strato contiene specifiche possibili “patologie” e “gradi di libertà”. 

Secondo Reich, ad ogni livello corporeo possono manifestarsi e sedimentarsi blocchi emotivi, anche a livello muscolare, che li rimarranno finché non ne avviene la liberazione tramite tecniche manipolatorie e terapeutiche.

E non solo. Come grande anticipatore della Psicosomatica, Reich arriva alla conclusione che il cancro difficilmente può essere curato, ma che sicuramente può essere prevenuto, evitando di reprimere la sessualità dell’essere umano. L’orgasmo, negli studi di Reich, è l’atto liberatorio e riequilibratore più utile ed efficace a disposizione dell’essere umano. La sua repressione provoca malattie fisiche e nevrosi psicologiche, nonché disturbi anche gravi della personalità.

Reich evidenzia come i diversi tratti del carattere formano un’unica difesa contro le emozioni pericolose, o vissute dall’individuo, soggettivamente, come tali. Da questo punto di vista, anche un intervento psicoterapeutico o di aiuto, può essere vissuto come una minaccia, al quale opporre una resistenza. L’insieme di queste resistenze, o difese, furono definite da Reich appunto ‘corazza caratteriale’.

Le potenzialità che un counseling corporeo è in grado di liberare sono racchiuse nel “nucleo” della persona, mentre la “facciata” è in genere la maschera o stato esteriore che la persona usa per proteggersi dall’esterno. 

I percorsi possono anche non avere a che fare con l’orgasmo ma con azioni comunque “esplosive” come il colpire un divano o dei colpitori speciali, in sede esercitativa e in sessioni di coaching olistico e counseling olistico.

In generale, bisogna liberare l’essere umano dai blocchi e dalle falsità. La vita di relazione con gli altri, il dialogo interiore, e le relazioni personali, quando vissuti solo tramite la facciata, danno luogo ad un modo di vivere falso, non autentico, impoverito. Arrivare a liberare il “nucleo” della persona è quindi un grande atto di libertà.


[1] Tra le prime pubblicazioni originali, Reich, Wilhelm (1933), Charakteranalyse, German Edition, Farrar, Straus and Giroux. English edition: On Character Analysis, in The Psychoanalytic Review (1913-1957). Edizione Italiana: Analisi del Carattere, Edizioni Sugarco, 1996.

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Tre libertà mentali: scegliere le fonti informative, rielaborare l’informazione e trarre conclusioni, comunicare e trasmettere idee

Se qualcuno ti dice di “leggere solo quel giornale” o “guardare solo quel sito” e ti oscura tutto il resto, sta riducendo la tua libertà.

Se qualcuno ti impedisce di arrivare a qualche tua conclusione rielaborando le informazioni che stai raccogliendo, ti toglie libertà. Se qualcuno ti impedisce in modo palese o sotterraneo, di dire cosa pensi, ti sta togliendo la libertà di vivere.

Da questa semplice osservazione naturalistica, persino biologica, fisica, tangibile, derivano tre specifiche libertà mentali:

  1. libertà di scegliere le proprie fonti, libertà di accesso alle fonti informative, sia materiali che immateriali, strutturate o esperienziali. Chi può e vuole ampliare le proprie fonti informative, e i canali cui accedere, ha maggiore libertà di confrontare informazioni tra loro, di accedere a dati che altri vogliono tenerti nascosto o che non vorrebbero tu conoscessi, che si tratti della storia, della scienza, della condizione umana, del lavoro e di come si lavora, o di cosa valga nella vita;
  2. libertà di rielaborare l’informazione, cercare dissonanze e incongruenze, costruirsi un proprio quadro di verità e di coerenze rispetto alle informazioni che si possiedono. Libertà di cambiare idea e quadro mentale al variare delle informazioni in possesso, ai dati in ingresso e al repertorio di conoscenze che abbiamo. Questa libertà contiene anche un altro importantissimo “grado di libertà”: ripulirsi da idealizzazioni tossiche e identificazioni tossiche. In noi vivono modelli nobilitati o “idealizzazioni” – archetipi su cosa è giusto, che ci sono stati trasmessi come tali dall’educazione, dai media, o dall’esempio (es, l’imprenditore di successo che lavora sempre, non ha emozioni, e non sbaglia mai) ma a noi possono far male o non piacere. Oppure l’imprenditore tutto Champagne e Yacht. O l’imprenditore vittima del lavoro che non può e non deve staccare mai, perché suo padre e suo nonno prima di lui, lavoravano sempre. Connessa a questa, esiste la libertà di ispirarsi a nuovi archetipi, modelli di vita diversi, alternativi, più densi dei valori che vogliamo assimilare in noi e che vogliamo interpretare nella nostra unica vita. Questa libertà comprende sia valori intangibili, “idee” e pensieri, sino alla libertà materiale, nel modo di vestirsi, negli accessori da indossare, negli sport da praticare o di quali pratiche fare nella propria vita, e persino di dove abitare e che stile di vita praticare, e cosa fare delle proprie risorse limitate (soldi, tempo, attenzione).
  3. libertà di comunicare e trasmettere idee. La libertà sul cosa dire, sul come dirlo, sui canali da utilizzare, e soprattutto sul perché comunicare, decidere ad esempio di non aderire alla forma di comunicazione del “gossip” o al “dialogo attorno al nulla” del “consumatore medio”, ma di voler contribuire al progresso delle conoscenze, dal singolo individuo all’intera razza umana. 

In ognuna di queste libertà esiste una meta-libertà, una libertà che va oltre il livello dell’individuo e cerca il rispetto e il diritto della libertà altrui. 

Nei rapporti personali, la libertà di comunicare in modo sincero è in se buona, ma richiede intelligenza. Può diventare comunicazione inutilmente violenta se non si usano opportune formule di cortesia e si fraintende assertività con aggressività. 

Quando si confonde il “dire la verità” con il “faccio quello che mi pare di te e me ne frego dell’effetto che avrà su di te” siamo nell’ambito di una “libertà unilaterale” che non è corretta.

Ogni libertà in più richiede anche un’attenzione in più sull’uso di questa libertà nei riguardi degli altri.

Ma dovendo scegliere tra libertà di espressione e silenzio, meglio l’espressione. Il rischio di finire nella Spirale del Silenzio, è troppo alto.

Dittature e regimi si qualificano soprattutto per libertà unilaterale che pongono dal vertice verso i “vigilati”. La vigilanza su ciò che sai: filtrare le informazioni che tu devi sapere, impedirti l’accesso alle verità o fonti alternative, renderti impossibile o punire ogni tua deviazione dall’opinione del regime, impedirti di comunicare e dire ciò che pensi.

L’ignoranza produce caos, la conoscenza produce libertà

Daniele Trevisani

Una riflessione conclusiva. Siamo tutti nati liberi, siamo nati per esserlo, siamo nati con strumenti di ogni tipo per comunicare e affermarci. Bisogna scoprirlo, e lavorarci sopra. Abbiamo il destino e l’orgoglio. Lasciamoli fluire assieme.

«In realtà, il processo d’individuazione è quel processo biologico… attraverso il quale ogni essere vivente diventa quello che è destinato a diventare fin dal principio». [1]

Talvolta, quando si è etichettati, quando si è marchiati, il nostro marchio diventa la nostra vocazione. (pag. 72)“– John Irving


[1] (C.G.Jung, Opere, Vol. 11, p.294)

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©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Libertà dalle idealizzazioni tossiche

Lo scopo della vita è ricevere conoscenza, rielaborarla e trasmetterla

Ripulirsi da idee tossiche, da immagini mentali che ti inquinano, libera la tua mente.

Daniele Trevisani

Siamo aggregati di cellule che ricevono informazioni, le rielaborano, e le trasmettono. Terabite di informazioni al secondo ci circolano dentro e ne verremmo sovrastati. 

I nostri meccanismi mentali hanno bisogno di scorciatoie. Una delle più forti è la strategia di “idealizzazione”, basata sul potere delle immagini mentali. 

È sufficiente chiedere ad una ragazza sovrappeso “è così che vuoi diventare?” mostrandole il fisico di una modella, “lo vuoi davvero, con tutte le tue forze?” e se la risposta è si, quella idealizzazione diventerà l’immagine guida per un intero programma. 

Ma se, poniamo, quell’immagine è sbagliata, non mostra una ragazza atletica e sana, ma ad esempio mostriamo una modella anoressica, stiamo producendo morte, non utilità.

Puntare ad essere “come quella modella” (che è anoressica e malata) o come la Barbie, o come il culturista più grosso del mondo (che morirà assolutamente con certezza di overdose di steroidi, vedi il caso di Rich Piana) non è idealizzazione sana.

Lo stesso vale per il “Manager con la Ferrari” (comprata a rate o con che soldi e guadagnati con quale meritocrazia di fondo?)

Ho incontrato personalmente, nella mia vita, casi di ragazzi giovani in fase di counseling universitario, che venivano attratti dall’idea di abbandonare gli studi dopo avere fatto qualche settimana di lavoro per aziende di network marketing, corsi di lettura veloce, successo rapido, e altre porcherie, e il ragazzo nello specifico diceva “ma il mio capo ha solo 26 anni e arriva in Porsche”. 

Capirete da soli quanta distorsione ci sia nei “metri di misurazione”. 

Forse anzi molto probabilmente, quella Porsche nasconde tanti di quei cadaveri nell’armadio, che se potesse parlare andrebbe a costituirsi da sola in commissariato. 

  • Se vuoi essere come “quello figo che ha la Porsche e non si è neanche laureato” stai facendo una idealizzazione tossica,
  • il superbodybuilder (non parlo di atleti veri del bodybuilding che esistono e sono rispettabilissimi, ma di fogne per steroidi) è una falsità ideologica, 
  • la Barbie vivente, la modella anoressica, sono una falsità ideologica, 
  • il dirigente/manager che non sbaglia mai e tratta tutti male, oltre che essere un idiota, è un falso ideologico.

Queste immagini false che rischi di prendere come verità che guidano la tua vita, si chiamano “idealizzazioni tossiche”. 

Trovare modelli e riferimenti positivi, invece, è arte e tecnica fondamentali. Figure che riescono a dare contributi utili, figure autentiche, persone che sono “possibili” e non modelli impossibili, utili solo a castrare e frustrare nella loro impossibilità di essere raggiunti. E che se raggiunti, portano alla distruzione della tua vita.

I modelli di riferimento e le idealizzazioni “buone” aumentano la tua libertà, non la riducono. Aumentano la tua cultura, aumentano la tua consapevolezza, la tua spiritualità, la tua libertà intellettuale.

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Dal ricambio cellulare al ricambio delle idee

Ogni corpo cambia, in ogni istante. Miliardi di cellule muoiono, altre nascono, ogni secondo. Ogni persona, ogni team, ogni impresa, vive un processo evolutivo, in cui possono accadere momenti di stasi, momenti di accelerazione positiva, momenti di regressione negativa e chiusura. Ma anche, momenti sacri, di ri-centraggio, di ri-allineamento con gli scopi più veri e profondi della vita e con un senso di nuovo splendore.

Il ricambio cellulare è reso possibile dalla “apoptosi”, termine coniato da John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e A. R. Currie[1] a partire dal termine greco che indica la caduta delle foglie e dei petali dei fiori. È una forma di morte programmata delle cellule, che l’organismo rimpiazza con cellule nuove. Permette un ricambio, e permette un rinnovamento e la vita. 

L’apoptosi o morte cellulare è un fenomeno fisiologico che comporta la degenerazione della cellula a conclusione del suo ciclo vitale.[2]

L’idea stessa che una cosa non duri per sempre ma abbia un suo ciclo vitale è fondamentale per il coaching, il counseling, e il cambiamento. Se non accettiamo questo, ci attaccheremo a idee vecchie e modi di essere passati, come un lupo imprigionato potrebbe attaccarsi al suo recinto invece di correre nel bosco.

  • Qual è il ciclo vitale delle tue idee dominanti? Proviamo a cercare di individuarlo? Partiamo dalle prime…
  • Quale è stata la tua idea dominante da bambino? In cosa credevi, in cosa ti identificavi, cosa contava per te?
  • Quale nell’adolescenza?
  • Quale da adulto e in qualsiasi fase tu sia ora?
  • Quale idea dominante ti farebbe bene o ti piacerebbe assimilare per il futuro senza che sia lei ad assimilare te?

Nel metodo HPM, specifici esercizi sono nati, a livello fisico, per accelerare l’apoptosi soprattutto a livello muscolare e degli organi interni, esercizi fisici che letteralmente portano ad un “rinnovamento” del corpo. In un coaching olistico, questi esercizi sono fondamentali.

Il termine viene dalla biologia, ma possiamo chiederci se non sia utile anche per il training mentale. Si tratta di un processo ben distinto rispetto alla necrosi cellulare, e in condizioni normali contribuisce al mantenimento del numero di cellule di un sistema

Purtroppo per noi, non abbiamo lo stesso meccanismo a livello mentale. Le nostre idee si “bloccano” e si fissano in alcuni casi indissolubilmente, finché un trauma o un bravo coach, terapeuta o Counselor riesce a farle venir fuori, mettercele in mano, e farcele “vedere”.

Il ruolo del coaching e del counseling è nobile: indirizzare il passaggio da energie racchiuse ad energie espresse, da potenzialità latenti a potenzialità che cercano itinerari di espressione, da blocco mentale a fluidità delle idee. Da corpi che sono sì e no gusci rattrappiti, a corpi “abilitanti”, enabling bodies: corpi che ti permettono di fare ciò che vuoi, corpi che non ti dicono di no, corpi che ti aiutano, corpi dotati di energia, il corpo che ti serve per i tuoi progetti, fino ad un abitare il corpo con passione e sentimento.

Nessuna idea sarà mai trasformabile in progetto reale se il corpo che abitiamo non ci aiuta, per cui il primato del corpo è definitivo. 

Dal corpo bisogna partire e al corpo bisogna arrivare, sempre. E lo stesso vale per i nostri pensieri più radicati “ereditati” dalla nostra cultura: se non ci confrontiamo con essi, a fondo, definitivamente, saranno sempre loro a dirigere noi.

Una condizione di blocco, di rigidità fisica e cognitiva, non è in genere positiva, mentre la plasticità, la flessibilità mentale e fisica, la capacità di mutare, di nutrirsi di nuovo cibo per la mente, favorisce l’adattamento all’ambiente. 

Non si tratta di rinunciare ai propri valori di fondo o lasciarli fluttuare come bandiere al vento, ma di accettare il senso stesso che nella rigidità assoluta non è possibile alcun cambiamento in positivo.


[1] Kerr JF, Wyllie AH, Currie AR, Apoptosis: a basic biological phenomenon with wide-ranging implications in tissue kinetics, in Br J Cancer., vol. 26, nº 4, agosto 1972.

[2] Microsoft® Encarta® 2009. © 1993-2008 Microsoft Corporation. Voce “apoptosi”

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Life Coaching: Aumentare i “Gradi di libertà” fisici e mentali

Avrai sentito molte volte la frase “sii te stesso”.

Bella frase, ma quel “me stesso”, è veramente chi sono io, o è quello che è stato buttato dentro al mio frullatore mentale? Scoprire chi e cosa è veramente quel “me stesso” è un lavoro stupendo e sfidante per il coaching e il counseling.

Il nostro sistema mente-corpo è immerso in un oceano di messaggi, di informazioni, di sensazioni tattili, olfattive, gustative, di pensieri su cosa è giusto e sbagliato, sui “devi” e “non devi fare”, persino “cosa devi e non devi pensare, nella tua testa”, messaggi che lo plasmano sin dalla nascita.

Ci sono persone che vedono lontano e non hanno timore di esprimere il loro sogno, la loro visione. Alcune di queste visioni sono state considerate pazzie, altre sono diventate realtà e storia.

“Non solo la potenza atomica verrà sprigionata, ma un giorno imbriglieremo la salita e la discesa delle maree e imprigioneremo i raggi del sole.”

Thomas Edison

Edison, pensavano i suoi contemporanei, sognava. Oggi possiamo dire: anticipava.

Il timore crea prigioni. Alcune persone temono persino di farsi notare, di esistere, di dire qualsiasi cosa che qualcuno possa contraddire. Muoiono da vivi.

La libertà non è uno stato singolo, ma piuttosto una posizione tra un continuum tra due poli. Da un lato abbiamo la costrizione assoluta (fisica e mentale) e dall’altro lato la libera scelta assoluta (fisica e mentale). Ogni “grado di libertà” che possiamo e riusciamo a scalfire dalla costrizione aggiunge un tassello alla nostra libertà totale.

La formazione dei guerrieri Ninja passava attraverso fasi importanti di superamento delle paure. Queste paure erano viste come ombre che impedivano alle abilità di esprimersi. I Ninja consideravano il superamento delle paure attraverso formazione iniziatica. 

Nelle iniziazioni e addestramenti venivano inseriti elementi di paura controllata, “in modo che l’ombra possa essere portata alla luce della mente dell’iniziato, che potrà così attraversare quella determinata paura. La paura è la porta più importante, perché senza lo slancio energetico che deriva dall’abbandono delle nostre paure ci sarà difficile proseguire nel nostro viaggio”[1].

Nelle pratiche di coaching esistono specifici esercizi, sia tradizionali (es, firewalking, seppure condotti da personaggi a volte discutibili) che innovativi. Personalmente, mi sono occupato di sviluppare alcuni esercizi speciali i quali attingono dalla mia esperienza trentennale nelle arti marziali, mentre altri nascono sulla base di esercizi psicodrammatici o comunicativi. Il fine ultimo è di crescere superando paure e generare slancio emotivo, senza con questo creare rischi fisici stupidi e inutili. Le stesse tecniche possono essere applicate nel counseling.

Possiamo dire che il coaching e il counseling siano due discipline che vogliono dire un grande “adesso basta!” all’essere plasmati a forza da ideologie esterne, da paure interne inutili, e cercano una via vera, più personale, depurata da ogni forma di falsità, consci persino che la libertà vera diventa un fine utopico ma senza quel fine ci sentiremmo morti. Queste discipline vogliono una vita più vera, più propria, più gestita con consapevolezza anziché in un sentimento di schiavitù. 

E’ un approccio rivoluzionario di sommossa esistenziale e non armata ma che cambia, attimo dopo attimo, vita dopo vita, l’intero pianeta.

Non bastassero le informazioni esterne, siamo a nostra insaputa inondati da informazioni interne (enterocettive, provenienti dal corpo stesso), alle quali prestiamo scarsa attenzione se non adeguatamente allenati. 

Alcune di queste sono deboli, sottili, ma importanti, ad esempio i segnali dello stress fisico e mentale, le posture, il respiro stesso.

Le tensioni muscolari latenti, croniche, dovute a stress mentale, sono un esempio classico di segnale “non ascoltato” che però porta a mal di testa, a mal di stomaco, a dolore fisico poi molto concreto, persino all’alterazione della nostra postura. 

Sto dicendo, assolutamente, che il nostro corpo fa trasparire fuori come ci sentiamo dentro, e se impariamo a leggerlo e a leggerci, possiamo fare di noi stessi un grande laboratorio di crescita personale. 

Imparare a leggere i segnali deboli e farli diventare segnali forti è un’arte che si apprende nel coaching e nel counseling corporeo.

Questi segnali sono così anestetizzati dalle nostre menti bombardate da rumore, che scopriamo che qualcosa non va solo quando ci troviamo al pronto soccorso.

Siamo persino sottoposti ad energie come onde elettromagnetiche (la luce solare è una), la forza di gravità e tantissime altre, sulle quali non riflettiamo più di tanto e ancora meno “sentiamo”, tranne quando, come il sole preso troppo, ti bruciano. 

Esistono anche forze psicologiche, come i “calchi mentali” e le credenze più forti che abbiamo assorbito dalle famiglie e dalle persone con cui ci siamo rapportati. Sono forze che sono penetrate nella nostra testa tramite religioni, libri di testo, letture, televisioni, conversazioni, e tanto altro materiale dell’acquario comunicativo nel quale abbiamo respirato e nuotato sinora.

“Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, metti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore. i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e soprattutto prova a rialzarti come ho fatto io.” Luigi Pirandello

Siamo in balia di forze tanto potenti e persistenti, che il fatto di metterle in discussione non passa nemmeno nella testa ai più. Qualche lamento si, qualche boffonchiamento si, ma niente di vero, niente di radicale. Anche nelle città dove l’economia fa schifo e le economie languono, anno dopo anno, i voti non cambiano più di tanto, gli stili di vita non cambiano più di tanto, e molti se potessero non cambierebbero proprio, resistendo al cambiamento fino a morire. 

Zombie che camminano verso la bara.

Ma risvegliarsi in vita è possibile. Può accadere quando accade un incontro con una persona illuminata, o molto più spesso una crisi, un esaurimento fisico o nervoso, o un trauma, ti fanno capire che quel sistema di forze e di equilibri ora non regge più. 

Non è più adatto per te. Poteva andare bene per chi l’ha sviluppato, nell’epoca in cui si è formato, ma non va bene per te, non ora, non qui. E tu te ne rendi conto e vuoi agire.

Coaching Umanistico

Siamo fatti per seguire la direzione mitica della nostra vita, per scoprire e poi intraprendere le più grandi imprese”

 Caroline Miss.

Il Coaching Umanistico vuole dare voce ad una pulsione di speranza, di forza, di azione, di vita vissuta a pieno. 

Il Counseling Corporeo pone invece l’accento sugli intricati meccanismi che rendono il nostro corpo l’unico mezzo abilitante, il mezzo con cui poter, di fatto, accedere al mondo esterno, l’unico ponte della mente verso realtà.

Da questo ponte possiamo cogliere le “pietre preziose” che il nostro cosmo racchiude, quando riusciamo a sviluppare facoltà di percezione aumentata, il che significa che la nostra percezione deve essere (1) abilitata e (2) allenato a vedere queste pietre preziose. 

Parliamo di “Abilitato” (enabled) in quanto alcune parti del nostro corpo, come la retina, devono esistere, materialmente, per cogliere fotoni, e quindi vedere, e questo solo per quanto riguarda la vista, ma per ogni fonte di senso e informazione. Ma qui non parliamo solo di una “abilitazione fisica”, bensì di allenare la nostra percezione a “vedere” di più e cogliere messaggi che ci sono, ma non percepisci semplicemente perché non li sai vedere.

La mente va anche “Allenata” (trained) perché in ogni secondo di “visione” entrano nel nostro cervello circa 20 Giga di dati, ma se nessuno ti ha mai insegnato a cogliere l’essenza e alcuni dettagli speciali, selezionando, di quei 20 giga non rimarrà altro che il nulla, o una visione sbiadita.

Peggio ancora non vedrai le “pietre preziose” che l’universo costantemente ci mette sotto gli occhi in un flusso costante di possibili meraviglie. 

Solo passando attraverso un training specifico di percezione aumentata potrai vedere la realtà un pò più vera, un pò più vicina a quella che è. 

Sarai, allora, un pò più libero.


[1] Heaven, Ross (2006). The Spiritual Practices of the Ninja. Inner Traditions, Rochester. Trad it: 2008, Le Pratiche Spirituali dei Ninja. p. 43-44. Macroedizioni.

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Immagine di sé (Self-image), identità e ruoli, conflitti in­te­rio­ri, pulizia mentale

L’immagine di sé corrisponde a ciò che noi pensiamo di noi stessi. Costituisce una forma di auto-percezione, di auto-immagine, con la quale ci misuriamo costantemente. 

Risponde in pratica alla domanda “cosa penso davvero di me?”, “come mi vedo?”. La “fotografia di noi stessi” può piacerci o meno, ed in genere, quanto più è bassa tanto più diminuiscono le energie mentali. Con alcune importanti eccezioni da esaminare.

In genere le energie mentali crescono quanto meglio riusciamo a sentirci con noi stessi, accettarci, piacerci. 

L’importante eccezione è la seguente: le situazioni in cui non ci sentiamo bene con noi stessi possono svolgere funzione positiva quando questa insoddisfazione si trasforma in un piano di lavoro e azioni concrete di cambiamento. In altre parole, non piacersi e macerarsi in questo stato è distruttivo per le energie mentali, mentre non piacersi, ma trovare una strada di miglioramento e praticarla, è un modo efficace per generare energie.

Uno dei compiti essenziali del coaching, sul piano etico, è quello di determinare se il “non piacersi” sia su variabili importanti e “giuste” o su aspetti di vita pericolosamente sbagliati, o assorbiti da modelli altrui improduttivi, mode effimere, esempi esposti dai media, il cui perseguimento finirebbe per fare danni elevati alla persona. 

Ad esempio, molte modelle non si piacciono e vorrebbero vedersi sempre più magre, diventando anoressiche, con casi accertati di morti per anoressia. 

Un coach (LifeCoach o FitCoach, o un consulente, o un medico) che aiuti questa persona ad essere tanto magra al punto di morire non è un coach ma un perfetto idiota e un delinquente. Aiutare le persone a perseguire obiettivi distruttivi è moralmente sbagliato. L’aiuto ha sempre uno sfondo etico.

Nessun problema invece per un coaching in cui una persona non sia soddisfatta delle proprie capacità di comunicazione, di negoziazione, o di leadership, o di vendita, e voglia migliorarle, o ancora non accetti un corpo evidentemente fuori forma, flaccido, e voglia essere tonico e sano, o ancora sia in perfetta forma ma voglia trovare una condizione agonistica di picco.

Trasformare gli stati di insoddisfazione in azioni positive quindi è uno dei compiti fonda­mentali del coaching.

Su quali temi può lavorare un coaching profondo?

Le forme specifiche di autoimmagini possono essere numerose e provenire da diversi angoli di osservazione. 

Distinguiamo alcuni piani di osservazione o analisi:

  • Self-image intellettuale: l’immagine di noi stessi sul fronte dell’intelligenza che ci attribuiamo, della capacità di interagire con le persone su un piano culturale, di usare la mente in modo raffinato;
  • Self-image dello spessore umano e morale: il nostro auto-giudizio su co­­me applichiamo alcuni valori in cui crediamo, il nostro valore morale. Comprende il giudizio su alcune delle scelte fatte in passato, il gradimento o rifiuto che abbiamo per noi e il valore morale che ci attribuiamo. Sul piano del coaching, è essenziale che il coach riesca ad isolare i fallimenti passati e ripulirli da giudizi errati sul proprio spessore umano e morale (au­toflagellazione improduttiva), per inquadrarne invece le reali condizioni, situazioni e difficoltà incontrate;
  • Self-image di ruolo professionale attuale: analisi limitata al piano della per­cezione di sé sul lavoro, come professionisti, lavoratori, o comunque nell’occupazione attuale;
  • Self-image dei ruoli e identità del passato personale: autovalutazione e gradimento di chi e come eravamo in diversi momenti della nostra vita passata;
  • Self-image bloccata nell’evento: un’immagine di sé negativa legata ad un evento critico (critical incident), es., una perdita, un fallimento, un atto spiacevole compiuto – che non viene accettata, superata, metabolizzata;
  • Self-image relazionale: l’immagine che abbiamo delle nostre abilità di re­lazione con gli altri. All’interno, ancora più in profondità, possiamo trovare altri piani sempre più analitici, alcuni dei quali citati di seguito;
  • Self-image della seduttività: l’immagine che abbiamo di noi come seduttori, amatori, comunicatori efficaci, sino alle relazioni sessuali;
  • Self-image agonistica: l’immagine di ruolo che abbiamo di noi come lottatori, sia in azioni proattive (di “attacco” a problemi e situazioni) che difensive, quando qualcuno attacca il nostro territorio fisico o psicologico. La ricerca del prototipo interiore può assumere le sfumature di guerriero fisico, di mediatore, o di soggetto abile nelle sfide verbali, di chi “non si lascia pestare i piedi”, o ancora di chi “preferisce sempre parlarne”, o di uno con cui “è meglio lasciare perdere”, o del “perdente”, e altre;
  • Self-image di ruolo genitoriale: l’immagine che abbiamo di noi come buoni (o cattivi) padri o madri, reali o potenziali;
  • Self-image di ruolo filiale: l’immagine che abbiamo di noi come buoni o cattivi figli, rispetto ai doveri sociali introiettati e attivi in noi;
  • Self-image corporea: l’immagine che abbiamo del nostro corpo, anch’es­sa connessa al gradimento o rifiuto che proviamo per essa (self-sa­tisfaction corporea);
  • Self-image complessiva: la sommatoria di auto-immagini, il quadro com­ples­sivo della nostra auto-percezione.

Il quadro delle percezioni è spesso confuso e dissonante. Possiamo trovarci a nostro agio con una delle nostre auto-immagini ma non con un’altra. 

Ogni autoimmagine non accettata può produrre 

  • un calo delle energie mentali, quando emerge la rassegnazione verso lo stato negativo (da non confondere con auto-accettazione dei propri limiti), o si scatena senso di colpa e frustrazione associati a senso di impotenza, o 
  • incremento delle energie mentali, quando la consapevolezza di un tratto negativo stimola il senso di orgoglio e la volontà di lavorarvi sopra, e viene individuato un percorso concreto nella direzione voluta. Anche piccolissimi passi possono sbloccare la situazione.

Per questo motivo, l’immagine di sé va chiarita sui diversi distretti psicologici e non solo in termini generali.

Un buon modo di partire è porsi la domanda (o porla, per i coach, formatori, terapeuti, educatori e counselor): In cosa sei diverso da come vorresti essere?… per poi entrare nello specifico.. es. Che tipo di manager vorresti essere, e in quali situazioni non si senti come vorresti? Ed ancora: Che tipo di professionista vorresti essere? Dove, in cosa, con chi non riesci ad essere come vorrestiCosa ti piace e non ti piace fare in particolare?  Con chi non ottieni i risultati che vorresti? Quando accade? Esaminiamo in dettaglio come ti muovi: cosa ti succede quando…? Dove invece ti senti funzionare al meglio? In quali situazioni? Facciamo qualche esempio…

Fare i conti con la propria identità: i ruoli multipli

Le autoimmagini pongono il problema dell’identità, il senso profondo di “chi e cosa siamo”, e fanno emergere la presenza della “molteplicità dei sistemi di appartenenza degli attori sociali”, delle identità multiple, il fenomeno per cui diverse identità e ruoli sono compresenti nell’individuo stesso, e spesso sono in conflitto per la gestione delle risorse (tempo, denaro, attenzioni).

Queste identità possono convivere (a volte solo apparentemente) ma entrano normalmente in conflitto. Ad esempio, l’identità di padre può richiedere di uscire prima dal lavoro o di non assumere un nuovo incarico (perché già saturi), mentre l’identità di professionista, basata su stereotipi di manager onnipotente, super-efficiente, richiede che un nuovo incarico vada assolutamente accettato e ricercato, non ci si faccia scappare l’occasione. Per scegliere bene e rapidamente dobbiamo sapere bene chi siamo.

Perseguire obiettivi ambiziosi nel percorso di carriera e nell’ascesa professionale può andare in conflitto con l’ambizione di essere un buon padre o madre. Dividere bene “chi siamo” nei vari momenti della giornata, e rispettare i confini tra i diversi ruoli personali, è un’abilità sociale e professionale da non dare per scontata.

Ogni energia e tempo possiedono limiti, ed si possono generare conflitti tra le diverse identità. Le domande interiori sono costanti, ad esempio: dedicarsi alla carriera o alla famiglia (e se ad entrambe, con che equilibri)? Dedicare la prossima serata agli amici o al mio sè intellettuale (lettura)? Dare spazio all’avventuriero o al pantofolaio, nella prossima vacanza? Andare in palestra o stare a casa? 

Ogni volta che si presenta una scelta, le identità latenti emergono.

Riuscire a compiere una sintesi tra le diverse identità e ruoli, evitare di disgregarsi, trovare una centratura personale, è fondamentale[1].

Finché non si sono “fatti i conti” con i propri sé multipli, e ricercato un equilibrio consapevole tra le identità multiple compresenti in ciascuno di noi, appare difficile trovare una armonia interiore e vi saranno conflitti interni permanenti (dissonanze cognitive). 

Queste dissonanze interne porteranno a pensare “sono qui ma dovrei essere là” in ogni occasione: sono qui al mare con la famiglia (identità genitoriale) ma dovrei essere  a dedicarmi a quel progetto di lavoro (identità professionale), ma vorrei anche leggere un libro (identità intellettuale), e via così. I conflitti interni non risolti assorbono e consumano energie.

Questi conflitti di identità minano letteralmente la percezione del tempo (time perception), distruggono il vissuto “sano” del tempo, impediscono di vivere a fondo il momento nel quale stiamo vivendo, con la costante sensazione “mi sta sfuggendo qualcosa di importante”. 

Per superarli è necessario applicare un training di “cultura dei confini” nel quale il soggetto apprenda a creare barriere mentali tra le attività (da non confondere con il tentativo goffo di dirsi “smetti di pensarci”), tramite una vera ristrutturazione cognitiva dei tempi personali.

Il problema delle identità riguarda anche la sfera del role-fitting (letteralmente: adattamento nel ruolo): sentire il ruolo come proprio, sentirsi adatto al ruolo, ben calato nel ruolo, essere “a pieno nel ruolo” o “forzato entro il ruolo”. Impadronirsi a pieno del ruolo (empowerment) è spesso difficile.

In alcuni rari casi si assiste al miracolo: persone che per un certo periodo di vita riescono a far coincidere una propria passione con la professione. Es.: un pallavolista o calciatore professionista, un ballerino o ballerina che praticano l’attività per professione ma anche per passione, un artista o pittore che amano l’arte, un leader che ama sfide professionali, un medico che ama curare, un formatore o docente che amano davvero insegnare e trasmettere.

Questa coincidenza di identità professionali e passioni non è la norma. E anche quando accade non è permanente.

Un pallavolista o calciatore può trovarsi a convivere con un allenatore che gli è poco simpatico. Un artista o pittore può trovarsi a dover mantenere una famiglia e dover produrre dipinti o opere non più solo per l’arte ma anche e soprattutto per comprare le scarpe ai figli. Un leader può trovarsi improvvisamente con l’azienda per cui lavora fallita o acquistata da un gruppo internazionale, e – se gli va bene – accettare una posizione minore, o essere licenziato. Un medico può anche trovarsi a dover curare una malattia oggi incurabile, o gestire casi più forti delle sue capacità o lavorare in ambienti demotivanti. 

Il dilemma “lotta o fuggi” pone domande: puoi permetterti di abbandonare? Hai soldi da parte per vivere tutta la vita? Vivi di rendita? Hai avuto eredità? Riesci a produrre e vivere con passione anche in mezzo ai problemi o in ambienti imperfetti? 

Imparare a trovare le energie mentali per vivere anche fuori da un mondo ideale è una competenza utile per ogni persona e per ogni performer. Questa capacità psicoenergetica è la capacità di sostenere imperfezioni e abilità di adeguamento ad ambienti ostili, vivere un mondo difettoso per natura e in situazioni carenti senza che queste lacune facciano soccombere le forze e la volontà. Vivere nell’impossibilità di perfezione è una nuova arte.

Abbiamo detto, tuttavia, che inseguire un sogno è importante, per cui le abilità di adeguamento sono una capacità apprezzabile, ma ancora di più lo è capire quando è ora di cambiare e trovare il coraggio di farlo.

L’analisi complessiva dei fattori di identità e di ruolo permette di scomporre larga parte del disagio esistenziale. Il coaching potrà quindi rimuovere le aspettative su di sé che non possono veramente essere raggiunte. Potrà sostituirle con qualcosa di sfidante ma perseguibile e sano.

Potrà anche supportare i processi utili per trovare un equilibrio forte e fissare nuove mete raggiungibili con le proprie risorse, maggiormente coerenti con un principio di realtà, ripulite da illusioni e modelli proposti dai mass media e dalle aspettative altrui.

Il coach può e deve facilitare l’impegno dell’individuo verso la propria formazione, indipendentemente dal fatto che il risultato venga poi raggiunto o meno, e ristrutturare il concetto di apprendimento, da male necessario a piacere di scoperta.

Per fissare ancora meglio alcuni punti cardine, esponiamo alcuni pensieri basilari nei principi che seguono.

Principio 1 – Identità, ruoli ed energie mentali

Le energie mentali sono collegate alle capacità di:

  • riconoscere i diversi ruoli giocati ed eliminare le forme di concorrenza interna per le energie disponibili, con aumento di una cultura dei confini tra ruoli;
  • capire bene come distribuire energie e tempi nei diversi ruoli giocati in un certo momento della vita, staccare mentalmente da un ruolo (es. lavorativo) prima di entrare in un ruolo diverso (es.: genitore); evitare trascinamenti e confusioni di ruolo;
  • capire quali priorità dare e saper rinunciare senza rimpianti a pretese di onnipotenza e desiderio di “voler essere dovunque” o “voler essere in troppi ruoli”, capacità di rinuncia serena e consapevole, senza rimpianto;
  • armonizzazione dei sé multipli in una identità sana, coerente, senza dissonanze interne tra i ruoli, ancorata a principi solidi;
  • gustare e assaporare il vissuto del tempo speso in un ruolo e attività connesse senza voler essere contemporaneamente in un ruolo e attività diverse e concorrenti (incremento della presenza mentale);
  • pulizia mentale dalle aspettative sbagliate su di sé, inerenti i ruoli proposti dai media e dalla cultura dominante, e ricerca di una propria identità più vera.

[1] Va reso omaggio in questo ambito al mirabile lavoro di Roberto Assagioli, che su questo tema ha prodotto numerosi contributi. Il senso stesso del metodo da lui creato, la Psicosintesi, ha un significato simile a quello che stiamo qui proponendo. Vedi Assagioli, R. (1973), Principi e metodi della Psicosintesi terapeutica, Astrolabio, Roma; Assagioli, R. (1977), L’atto di volontà, Astrolabio, Roma; Assagioli, R. (1999), Psicosintesi: per l’armonia della vita, Astrolabio, Roma.

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©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Libertà di valori e libertà ideologica. Come queste diventano libertà nei comportamenti di tutti i giorni

La libertà della persona di assumere sistemi di valori che sente propri, di cambiarli.  Esaminare il sistema di valori ritenuti importanti nella vita, priorità tra valori e eventuali aspettative divergenti. Si tratta di un esame delle ideologie, dei “credo” valoriali, delle scelte di fondo che ci possono rendere un’attività soddisfazione o sacrificio. In cosa credi? Cosa è importante per te? Cosa da senso alla vita? 

Questo tratto è il più difficile da far emergere, toccando le scelte esistenziali, il significato stesso dell’esistenza. Se però riusciamo a far emergere alcuni di questi elementi forti, essi possono costituire l’ancoraggio di qualsiasi motivazione al fare, al crescere al migliorarsi. Un faro che guida la persona nella nebbia e verso la libertà più vera.

Tacco 12 in borsa, e cravatte odiose d’estate. Passerelle e patologie dell’Homo Aziendalis, in fuga dalla libertà

Guardiamo bene, e siamo sinceri.

Si stanno creando comportamenti osservabili, nelle aziende soprattutto, che sono ripieni di patologia. Quando a Milano o Roma vedi signore e ragazze scendere dal motorino o metropolitana, sfilarsi scarpe comode, infilarsi scarpe con tacco 10 o 12 e entrare in azienda, capisci che quel comportamento è un segnale di valori che si stanno distorcendo. 

Non si sta andando ad un matrimonio, ma ad una giornata di lavoro. 

In una giornata di lavoro, si cerca di essere produttivi. Si valorizza la meritocrazia, non la taccocrazia. Come fa un tacco 12 a renderti più produttiva?

Bisogna allora essere sinceri e dire che dentro alle aziende vige molto più la regola dell’apparire che dell’essere o del fare, e che questo male è una cancrena.

Lo stesso si può dire per i manager in giacca e cravatta d’estate, visibilmente sofferenti nel doversi vestire e coprire tanto. Del resto quanto finalmente, appena entrati in macchina, possono sfilarsi le stupidaggini da dosso, e mandare a quel paese quel sistema di falsità e rilassarsi, si sentono sollevati. All’estremo, arriviamo al manager che prima di entrare in azienda va dalla parrucchiera per rifarsi l’onda che tutto il giorno passa ad accarezzarsi, ma questo è “oltre”.

Il problema è “perché”? Goffman parlerebbe di “rituali” e “abiti di scena” con cui i personaggi aziendali cercano di darsi un’immagine. Ma in azienda servono “personaggi” o “persone vere?”.

Uno psichiatra sano, vedendoti vestito come d’inverno con 40 gradi, ti inserirebbe in qualche struttura di ricovero e recupero molto volentieri.

Invece, no. Diventa normale, diventa la regola del branco, il Dress Code diventa un valore, il che è pazzesco perché dovrebbe essere il contrario. 

I Valori dovrebbero dettare i Dress Code.

E nei miei valori, meritocrazia, creatività, produttività, far crescere il Potenziale Umano e Potenziale Personale, non vedo grande consonanza con il mascherarsi con tacco 12 e cravatta estiva. Quelli vanno benissimo, magari ad un party, o se sono scelta libera, se invece a non metterli rischi il licenziamento o il gulag, o il declassamento d’immagine, non ci siamo.

Come ci fa notare Harrison[1], esiste una serie di comportamenti che ogni etnia, ogni tribù, fa propri, e guai a chi li mette in discussione. L’Homo Aziendalis sta prendendo proprio una brutta piega, molto lontana dalla libertà e dalla verità, molto vicina alla “passerella aziendale” che poi fa chiudere le aziende per mancanza di veri contenuti e vere proposte. Pochi progetti e tanto packaging, non fanno bene.

In altre culture, penso alla Silicon Valley, vediamo amministratori delegati di colossi dell’Information Technology tenere discorsi ufficiali con un bomberino di pelle o una camicia semplice, e non tanto per apparire e fare understatement, ma proprio perché quanto hanno da dire è talmente denso e forte, che sovrasta enormemente il bisogno di vestirsi in abito di scena speciale.

Per cui, tornare a “dire” cose importanti deve diventare una nuova moda, rompere la Spirale del Silenzio, rompere la passerella del corridoio, e tornare a ragionare su cosa fa bene all’azienda veramente.

Ciò che vale sempre – come riferimento per il coach – è di puntare a inserire memi che potenziano la ricerca di una soddisfazione soggettiva verso la vita (life satisfaction soggettiva), la verità e la libertà espressiva, rimuovendo la spazzatura mentale che troviamo in circolo, con un’enorme dose di etica professionale e di attenzione.

I memi (tracce mentali) fanno la differenza tra attività che l’individuo vorrebbe saper svolgere e quelle che riesce a svolgere, condizionano il senso di efficacia personale, gli obiettivi che vorrebbe raggiungere e quelli pensa di non poter mai effettivamente a raggiungere (senso di potere personale). Il potere personale dell’essere liberi da falsità e cercatori di verità, è un potere enorme. Vale la pena cercarlo, dovessimo metterci tutta la vita.

I valori determinano comportamenti, in azienda e nel privato

Un valore vero si trasforma sempre in comportamento. In azienda, se un imprenditore crede veramente nel valore delle persone, fisserà un budget per la formazione, imprescindibile. Sul piano privato, se un tuo valore è mantenerti sano, un tuo comportamento sarà mangiare molta verdura e frutta, e fare ogni giorno attività fisica. Se non succede, siamo di fronte ad una dissonanza pesante. E la scusa “non ho tempo” regge poco, pochissimo.

Non parlo di diventare “santi”, parlo di diventare sinceri con se stessi e lavorare sulle dissonanze che troviamo, quando andiamo a scavare tra quello che facciamo realmente e i valori che possediamo e enunciamo essere nostri.

Non è un lavoro che fai per gli altri. Lo fai per te.

C’è gente che riesce ad allenarsi anche 10 minuti al giorno, in modo molto efficace, in stanza d’albergo prima di fare una doccia. Per diversi miei clienti che viaggiano molto ho sviluppato un circuito serio di 10 minuti con 10 esercizi diversi da fare in camera, a corpo libero, e con attrezzi quali il pavimento, le seggiole e niente altro, che vi garantisco che “fa”.

E questo vale per tutto. Se un tuo valore vero è la meritocrazia, ci sono comportamenti che ne derivano, molto concreti.

Ogni intervento di formazione o di coaching inerente il potenziale personale deve obbligatoriamente comprendere lo stato attuale delle credenze (sfondo memetico della persona) e la coerenza valori-comportamenti, rispetto alle aree su cui vuole intervenire. 

Più specificamente, dovrà inoltre analizzare le credenze attive su specifici quadranti che riguardano la performance (sfondi memetici di dettaglio), rimuovere e modificare credenze dannose rispetto agli obiettivi di coaching, e costruire un quadro consonante rispetto agli obiettivi desiderati di crescita e sviluppo personale.

Come conseguenza, va ribadito che le azioni di coaching in profondità e di coaching analitico non si accontentano di cambiare il comportamento esteriore ma devono obbligatoriamente incidere sugli sfondi memetici, sulle credenze profonde delle persone, localizzando blocchi e limitazioni, e stimolando stili di pensiero positivi. 

Il coaching agisce sulla “cultura personale”, non su psicopatologie, e quando investiamo sulla nostra cultura, quando una persona lavora su di sè, diventa più libera. 

Non esiste investimento migliore. È probabile che la cultura dell’investire su di sè riguardi per ora un’elite di professionisti, di manager, di persone che non si accontentano di adagiarsi su un nido vecchio ma desiderano lavorare al proprio “nido interiore” e renderlo più accogliente sia per se che per gli altri. Questa, a mio parere, è una grande forma di libertà.


[1] Harrison, Gualtiero (1988). Antropologia Psicologica. CLEUP, Padova.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

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