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distanza dei codici comunicativi

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Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’articolo di oggi ruota attorno ad uno dei temi più discussi nel mondo del lavoro, ossia la comunicazione aziendale e la gestione delle risorse umane. 

Come imprenditori, c’è da chiedersi innanzitutto che valore attribuiamo ad entrambe, e quindi: 

  1. quanto contano per me le persone che lavorano nella mia azienda? 
  1. Considero utile la loro formazione? E quanto sono disposto ad investirci? 
  1. Quanto conta per me la comunicazione in azienda? La considero indispensabile per raggiungere il successo come impresa, oppure preferisco non sprecare ore preziose di lavoro per formarmi e formare i miei dipendenti alla comunicazione efficace? 

Ci sono molte altre domande che potrei aggiungere, ma se dovessi elencarle tutte, probabilmente al posto di un articolo produrrei un libro. 

È chiaro che, una volta che ci siamo posti le giuste domande, dobbiamo anche darci le giuste risposte. E proprio a questo punto sarei curiosa di leggere nel pensiero di ogni imprenditore che sta leggendo questo post, per creare una statistica reale della concezione che le aziende italiane hanno del capitale umano e del supporto consulenziale in marketing e comunicazione strategica. 

Potrei sbagliarmi, ma dalle precedenti esperienze lavorative mi sono accorta che, in Italia, la maggior parte delle aziende vede le persone come numeri sostituibili e i corsi di formazione come una spesa inutile.  

Il nostro compito, come consulenti, è quello di sfatare questo mito e di provare in tutti i modi a far aprire gli occhi delle aziende sul futuro del lavoro. 

Il futuro che io vedo, forse ancora nell’utopia della giovinezza, è un futuro dove le aziende valorizzano sé stesse attraverso la cura per il proprio personale, dove ogni dipendente viene posto al centro di ogni discussione, dove le persone riescono a bilanciare con serenità vita privata e lavorativa, ma soprattutto dove la comunicazione sia argomento fondamentale nella formazione di ogni lavoratore. 

Rendiamoci conto che, raggiungere obiettivi all’interno di qualsiasi società comporta il doversi relazionare con colleghi, clienti e fornitori: in altre parole con altri esseri umani che, come noi, hanno sogni, aspirazioni, valori e credenze specifici, con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno quando interagiamo. 

Se l’interazione non è fluida si creano ostacoli, spesso insormontabili, al successo e si rischia il fallimento. Per questo motivo lavorare sulle proprie capacità comunicative, e soprattutto su quelle dei nostri dipendenti, è fondamentale per permettere alla propria società di diventare sempre più competitiva sul mercato. 

Saper comunicare bene giova sia al personale interno, che all’immagine stessa dell’azienda nei confronti di clienti e fornitori esterni con cui condurremo negoziazioni positive e svilupperemo rapporti di fiducia duraturi. 

Per concludere vorrei dire due parole a tutti quegli imprenditori che si sono soffermati a leggere queste poche righe: se davvero ci tenete al futuro della vostra impresa osservate il mondo che cambia, poiché se sta cambiando significa che l’essere umano ha raggiunto nuove consapevolezze e vuole vivere la propria vita privata e lavorativa in modo diverso. Le nuove generazioni si sono rese conto che per lavorare bene, bisogna essere felici e anche l’azienda è responsabile della loro felicità. Dipendenti felici significa maggiore produttività, che, unita ad una comunicazione strategica consapevole, può davvero fare la differenza nel mondo che verrà. 

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo continueremo a parlare della distanza relazionale concentrandoci sui tre conflitti comunicativi (o incomunicabilità) che possono nascere dalla mancanza di codici comunicativi, sfere ideologico-valoriali e referenti condivisi.

Mancanza di codici comunicativi condivisi

Ogni volta che parliamo, emettiamo messaggi, ma non è detto che al destinatario arrivi esattamente il messaggio che noi stavamo pensando. Quando il codice comunicativo è “rotto” o non condiviso, abbiamo una rottura della comunicazione (es: stile comunicativo altoborghese vs. stile comunicativo diretto e offensivo, oppure stile pessimista vs. stile ottimista, ecc…)

Quando due stili invece sono diversi ma hanno alcuni gradi di similarità, la comunicazione si fa più piacevole, e possibile. È l’esempio di uno stile ottimista che incontra uno stile positivo, oppure di uno stile accademico che incontra uno stile scientifico, e tante altre possibilità. 

La completa rottura di codice, o completo breakdown comunicativo, avviene quando si utilizzano due lingue dalle radici molto diverse (per esempio tedesco vs. coreano) in un canale che non permette la visualizzazione del comportamento non verbale, e senza possibilità di traduzione.  

Utilizzare due lingue completamente diverse (o solo in parte diverse) nel parlato aiuta già a far passare qualche messaggio tramite il canale paralinguistico e le espressioni facciali: per cui, anche se non è possibile entrare nei dati della comunicazione in corso, è possibile coglierne i toni. 

I suggerimenti principali sulla D2 sono di cercare di capire i codici della controparte e fare sforzo di adattamento, accettare anche di negoziare i contenuti della conversazione, e per la parte tecnica della trasmissione, fare messaggi brevi, con pause, per favorire l’elaborazione dei messaggi stessi. 

Mancanza di sfere ideologico-valoriali condivise

Dato che non esistono due visioni del mondo assolutamente uguali, dobbiamo concedere alla comunicazione il suo status vero, di ponte tra realtà diverse, di collegamento tra diversità. 

Quando le diversità si fanno troppo ampie, incompatibili, la rottura della comunicazione diventa un fatto concreto. Spesso sono le sfide, quelle vere, come il far crescere figli, incontrare difficoltà economiche o lutti e malattie, a far venire fuori i valori veri e gli atteggiamenti latenti, che non sarebbero mai emersi senza la crisi. In questa condizione, è possibile che il legame si rafforzi ancora di più, o che invece si vada al breakdown o rottura della comunicazione e della relazione. 

Un suggerimento importante per la D3 è quello di comunicare sapendo in partenza che troveremo differenze valoriali, ideologiche, di atteggiamenti e di credenze, e di non pretendere di trovare nostri cloni, ma accettare di comunicare nelle diversità.

Mancanza di referenti comuni

Facciamo il punto. L’incomunicabilità viene descritta nel modello delle Quattro Distanze come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori. 

  • D1 – Prima Distanza: differenze nei ruoli e nelle personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi da rompere la comunicazione per non accettazione dei ruoli dell’altro o della relazione” 
  • D2 – Seconda Distanza: differenze sul tema della conversazione oppure incomunicabilità di codice, cioè il fatto di non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune. 
  • D3 – Terza Distanza: divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali di portata tale da rendere totalmente incompatibili tra i due comunicatori e da bloccare la comunicazione o provocare il ritiro di una delle due parti non appena emergono. 

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 (Distanza Referenziale). Il tema della D4, e della rottura della comunicazione sulla D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere avuto esperienze completamente diverse di una situazione, o di non aver mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo.

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica, infatti, è comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendoli come se fossimo la persona che parla. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali e corporee (bodily-felt sense). 

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.  E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa. 

In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Parlarsi chiaro vuol quindi dire anche spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare delle parole”, per spiegare i termini e la nostra immagine mentale collegata.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa, o simile, esperienza (es: partorire). Questo vale per tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente. 

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del felt sense, o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione. L’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i felt sense. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire è tra i felt sense delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi di quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici. 

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre attivo l’allarme che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nell’articolo a seguire continueremo a trattare l’argomento della seconda distanza, quella tra codici comunicativi, approfondendo in particolare la distanza semiolinguistica e le differenze che la compongono.

Ognuno di noi fa un’esperienza della realtà sempre leggermente diversa dall’altra persona.  Questo perché ciò che vedo viene filtrato dalle mie esperienze precedenti, viene giudicato come buono o cattivo in base ai miei valori profondi e alle credenze di superficie, e persino agli stati d’animo del momento. 

La percezione, in altre parole, filtra ed esclude parti di realtà, ma la lingua che usiamo è un “attrezzo” molto antiquato che può raccogliere solo un’infinitesima parte di quanto noi “sentiamo dentro” e vorremmo comunicare agli altri. I linguaggi emotivi, la possibilità stessa di far capire a qualcuno come stiamo veramente in un certo momento, avrebbero bisogno di una miriade di sfumature in più che non siamo in grado di esprimere. Per questo siamo costretti ad utilizzare termini ordinari, più vicini possibili alle nostre esperienze, anche se mai del tutto efficaci ai fini dell’espressione emotiva.

La distanza semiolinguistica riguarda la natura del linguaggio (codici linguistici e comunicativi, codici espressivi e di comprensione disponibili nel repertorio del soggetto) e i contenuti conversazionali.  

Si distinguono due grandi categorie:

  1. la categoria dei contenuti (il tema della comunicazione, il “di cosa” si parla)
  2. la forma linguistica (il “come” si parla, il codice utilizzato per dare forma ai contenuti). 

La polarità di codice non è tuttavia solo linguistica. Tale distanza si differenzia in distanza tra codici verbali, distanza tra codici paralinguistici e distanza tra codici non verbali. 

Differenze semantiche

Il caso più evidente di differenza semantica è quello in cui una persona parla un’altra lingua, ma non si tratta solo di questo! Anzi, le distanze tra persone sotto il profilo linguistico sono ben più insidiose e toccano anche persone che abitano nella stessa casa.  

Per comunicare efficacemente dobbiamo quindi avere ben chiari i significati che l’altro attribuisce a determinate parole o segni e comprendere le sue associazioni mentali sui temi inerenti all’argomento conversazionale in corso.

Al contrario, quando ciò non avviene, si possono verificare incomprensioni e rotture della comunicazione.

Differenze di contenuti

Tra i casi di comunicazione che crea distanze vi sono: 

  • il parlare di guai a senso unico: una persona racconta guai, l’altra ascolta ma non ha forze, energie o interessi per ascoltare un tale argomento e si crea allontanamento; 
  • il parlare di sé a senso unico, non lasciare spazio conversazionale, monopolizzare i turni di conversazione; 
  • non interessarsi alle posizioni dell’altro; 
  • non inserire nella comunicazione delle formule di vicinanza;
  • toccare prematuramente sfere proibite del passato o del presente individuale senza avere ottenuto il grado di intimità psicologica che consente di farlo; 
  • attaccare valori cardine del sistema di appartenenza; 
  • attaccare l’immagine del sistema di appartenenza; 
  • attaccare le credenze più consolidate del soggetto. 

Se il nostro modo di comunicare è spiacevole, per i contenuti prevalenti che tratta, provoca allontanamento. Molti comunicatori che in privato sono persone affabili e simpatiche, adottano un formato di conversazione spiacevole nelle negoziazioni e allontanano la controparte. Questo errore viene da un’errata percezione del ruolo di comunicatore come soggetto negativo, o duro e rigido, e va rimosso. 

Differenze di stile comunicativo

Uno stile comunicativo diverso, sia a livello interculturale, ma anche all’interno della stessa cultura nazionale o aziendale, crea distanze: è il caso dello scontro tra uno stile “manageriale” e uno “burocratese”, o tra uno stile “volgare” e uno “colto”. Gli incroci tra stili possono essere funzionali oppure disfunzionali. 

Elenchiamo qui una lista selezionata tra centinaia di possibili stili o sottocodici esistenti: 

  • Poetico 
  • Romantico 
  • Rustico 
  • Snob 
  • Pignolo 
  • Pressapochista 
  • Assertivo 
  • Conciso 
  • Militaresco 
  • …e altri centinaia di stili rilevabili nel contesto sociale e mediatico. 
Differenze di focus

Il problema fondamentale del focus comunicativo è se l’attenzione al contenuto è centrata su di sé, sull’altro o su un tema esterno. 

Per esempio: 

  • si parla per raccontarsi (tipo 1: il centro è su di sé),  
  • si parla per ascoltare (tipo 2: il centro è sull’altro).  
  • si parla per raccontare (tipo 3: il centro è su fatti o eventi esterni). 

È possibile anche cambiare il tipo di focus durante la conversazione, ma occorre essere consapevoli di quale focus stiamo usando e perché. 

Chi parla solo per raccontarsi rischia di diventare pesante e di allontanare l’interlocutore. Per l’efficacia della comunicazione è necessario equilibrare il focus conversazionale. In genere, il piacere della conversazione è spostato su chi ottiene l’attenzione empatica. Quindi, offrire attenzione empatica, interessarsi all’altro è un metodo per creare una conversazione piacevole per il nostro interlocutore.  

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo cercherò di spiegare come tutto ciò che ci circonda esprima un messaggio: dalle esperienze olfattive, passando al look personale, fino alla scelta dei colori e dei simboli, ogni dettaglio va curato per permettere una comunicazione positiva ed efficace.

Olfatto e comunicazione

Le differenze olfattive sul piano etnico e genetico sono realmente esistenti, ma l’olfatto percepito è determinato in larga misura da fattori culturali quali l’alimentazione, la pulizia o l’uso di profumi.  Bisogna far notare che le emissioni olfattive personali sono uno strumento di comunicazione e fanno parte del personal branding.

È certo che l’olfatto incide sulla percezione, e che l’alimentazione produce essenze che trasudano dalla pelle e dal fiato. Questi aspetti sono da curare per chi vuole gestire ogni aspetto, anche i minimi dettagli, della comunicazione e, più in generale, del contatto umano.

Anche l’odore della stanza in cui si negozia, le percezioni olfattive incontrate lungo il percorso, nei corridoi, nei parcheggi e piazzali formano la people perception complessiva (l’immagine dell’altro). Tutto ciò che si può attribuire in qualche misura al soggetto o all’ambiente aziendale incide sulla percezione e sull’immagine.

L’olfatto però è un senso remoto dell’essere umano, parzialmente abbandonato a favore di sensi quali vista e udito: i segnali di fiducia e sfiducia, la percezione delle emozioni altrui, sono quindi da affinare soprattutto nella capacità del comunicatore di cogliere i movimenti facciali emotivamente incontrollati, il timbro vocale e le rotture del tono della voce che segnalano stress vocale ed emotivo

Altri studi sostengono comunque che la capacità olfattiva si sia solo attenuata e vi siano a livello inconscio continui scambi olfattivi, ad esempio l’analisi delle possibili compatibilità sessuali tra uomini e donne.  A livello interpersonale non sono possibili al momento strategie comunicative olfattive in grado di riconoscere emozioni su base feromonica, ma sono comunque possibili odorizzazioni personali mirate e strategiche.  

Comunicare attraverso il look personale

Possiamo asserire che un manager con capelli lunghi, orecchini, tatuaggi e abiti vistosamente colorati sia considerato uguale ad un manager in abito scuro e cravatta, agli occhi di un cliente tradizionalista borghese europeo? No di certo. Le persone giudicano in base all’impatto visivo, e si formulano immagini e opinioni ancora prima di avere udito una singola parola. 

Della storia reale dei soggetti infatti non possiamo conoscere praticamente niente, eccetto i simboli che scorgiamo e dai quali traiamo possibili significati e associazioni. La comunicazione simbolica riguarda i significati che le persone associano o recepiscono da particolari “segni” che notano nell’interlocutore e nel suo spazio comunicativo.

Look, abbigliamento e accessori sono tra i fattori più incisivi per costruire un’immagine personale: le differenze o similarità di abbigliamento, così come dei capelli, dei segni sul corpo, dello stato e della cura della pelle, ecc… fanno rientrare un soggetto all’interno degli ingroup professionali (“uno come noi”, gli “uguali”) o degli outgroup (“uno diverso da noi”, gli “altri”), qualsiasi cosa rappresenti per il soggetto il “noi”. 

In un sistema di significazione allargata, diventano importanti anche le simbologie che esprimono i marchi utilizzati, il tipo di auto (da lavoro, da città, fuoristrada, sportiva, lussuosa, e il marchio), le griffes, e persino gli arredi degli uffici, i quadri appesi alle pareti, l’arredamento. 

Costituiscono segnali allargati anche i comportamenti cronemici (il rapporto delle azioni con il tempo), come l’arrivare in anticipo, puntuali, o in ritardo, la frequenza che notiamo nel cambiarsi d’abito, la puntualità di invio di una e-mail, la tranquillità o nervosismo nel modo di guidare, i tempi che una persona impiega nel mangiare o nel bere (lento e calmo vs. veloce e vorace).  

Si può dire che nel campo della comunicazione nulla sfugge all’osservazione dell’interlocutore, e ogni “segno” contribuisce alla sua classificazione e valutazione. 

Colori e simboli

Un elemento ulteriore di comunicazione simbolica è dato dai colori. Anche l’uso dei colori e i simbolismi ad essi associati variano a seconda delle culture. Prendiamo come esempio il giallo, che nei paesi occidentali viene associato ai segnali di attenzione, mentre in Cina rappresenta la ricchezza e l’autorità, oppure il viola che in America Latina è un colore funebre mentre in Europa si associa alla regalità.  

È importante sottolineare la necessità di porre attenzione ai simbolismi associati ai colori ogniqualvolta ci si pongano problemi di scelta di colori e grafiche, per esempio nei packaging, nei regali di rappresentanza, negli oggetti. Tra i colori più “sicuri” sul piano culturale si colloca il blu, ma praticamente tutti i colori, così come anche l’oggettistica e i simboli, assumono alcuni significati particolari in alcuni paesi.

Il principio base per evitare macroscopici errori è l’uso del pre-test, della “prova pilota” su alcuni soggetti: piccoli campioni, persone rappresentative della cultura locale che siano in grado di dare feedback sulla appropriatezza dei colori, delle forme e dei simbolismi, dei messaggi, visti dall’interno della cultura stessa. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Restiamo nell’ambito della seconda distanza, introducendo il linguaggio non verbale e le sue differenze culturali.

Il codice comunicativo umano comprende il movimento corporeo e persino le stesse caratteristiche corporee osservabili, che assumono funzione di elemento comunicativo, come un tatuaggio, il grado di cura della pelle, o dei capelli, il look fisico e gli accessori e abbigliamento. 

Il corpo parla, esprime significati, emozioni e sentimenti. Anche i tentativi di bloccare queste emozioni e sentimenti sono essi stessi “metamessaggi”: vedere una persona che non esprime alcuna emozione, o si sforza di reprimerle è di per sé un segnale che porta a specifiche riflessioni. 

Body language

Il body language riguarda: 

  • la mimica facciale e le espressioni facciali; 
  • i cenni del capo; 
  • i movimenti degli arti e la gestualità; 
  • i movimenti del corpo e le distanze; 
  • il tatto e il contatto fisico.

Le differenze culturali su questi punti possono essere molto ampie.  Pe questo motivo la distanza di Codice (D2) è spesso maggiore di quanto si supponga.

Le culture variano molto sul tipo di gestualità. Per esempio in una comunicazione italo-cinese si possono notare evidenti differenze tra la gestualità italiana e le sue tipiche espressioni facciali, mediamente più ampie ed evidenti, e quelle cinesi, più contenute.

Il contatto fisico

Oltre ai movimenti del corpo e del viso, un altro elemento molto importante della comunicazione non verbale è il contatto fisico. L’intimità del contatto fisico è in genere preclusa a molte culture e relegata a contesti molto limitati quali la stretta di mano, e va usato con attenzione. 

Mentre alcuni standard occidentali di contatto fisico si diffondono nell’intera comunità di business, come la stretta di mano, ma ogni cultura esprime un diverso grado di contatto nei saluti e nelle interazioni fisiche.  In generale, qualora non sia possibile raccogliere informazioni accurate da esperti della cultura locale, è preferibile limitare il contatto fisico per non generare un senso di invasività. 

In generale, la D2 parla anche del grado di intimità che due persone possono avere tra di loro. Il nostro modo di comunicare, dalla parola al tocco sino a interi brani di non verbale hanno a che fare con la distanza emotiva e persino con la distanza o vicinanza spirituale delle persone. Esiste quindi quella che possiamo chiamare una “prossemica emozionale” (studio delle distanze di valori sul piano emotivo) e una “prossemica spirituale” (studio delle distanze di valori sul piano spirituale).  

Gli intenti di chi comunica sono altrettanto forti, e collegano la D2 (codici comunicativi) alla D1 (ruolo che voglio giocare nella relazione). Esiste un driver, una pulsione in ognuno di noi: il desiderio di avere una comunicazione autentica e di comprenderci reciprocamente. Ma, anche se c’è la volontà di comprendersi, bisogna fare i conti con il problema tecnico del comunicare, ed essere consapevoli che non sempre c’è la possibilità di comprendersi davvero a fondo.

L’uso dello spazio nella comunicazione

Ogni cultura ha regole non scritte per delimitare i confini di accettabilità delle distanze interpersonali e delle disposizioni delle persone. 

Anche in questo caso, vale il principio di ricorrere alla conoscenza di esperti della cultura locale, mentre una regola valida in caso di mancata conoscenza è quella di lasciare che sia la controparte a definire il proprio grado di distanza, senza forzare né un avvicinamento né un allontanamento. 

La consapevolezza principale da sviluppare è quella della “distanza critica”, che definisce la distanza interpersonale entro la quale un soggetto si sente vulnerabile, esposto ai rischi di un’aggressione.  La distanza personale viene infatti definita da Hall come “una bolla invisibile che circonda l’organismo”.

Al di là delle regole intra-culturali, alcuni atteggiamenti relativi alle distanze sono trasversali alle culture perché ancorati alla radice animale umana. Per esempio “lasciare il posto”, dare spazio a qualcuno, è uno strumento per assegnare status, riconoscere l’importanza dell’interlocutore, e comunicare rispetto.   

Per il comunicatore consapevole, non è da intendere come pura sottomissione, ma può assumere anche la funzione di mossa tattica, atto di cortesia relazionale che precede il confronto negoziale vero e proprio. Far stare scomodi, al contrario, serve per stabilire forti distanze.  

Alcuni comunicatori usano tattiche specificamente volte a turbare l’equilibrio emotivo del soggetto (logoramento emotivo). In questo modo si crea dissonanza interna, e quando si è in dissonanza interna, si è più deboli nella comunicazione e la comunicazione personale si fa più scomposta.  

La tattica adeguata è quella di esigere un grado di comfort superiore, ma solo se si ha la quasi matematica certezza che una specifica mossa di avversità sia in corso, e quelle non siano le reali condizioni massime di accoglienza che il soggetto è in grado di offrire. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

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Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Conclusi gli articoli sulla prima distanza e sull’Analisi Transazionale, ci spostiamo a parlare della seconda distanza, quella dei codici comunicativi, di cui seguirà una breve introduzione.

Noi umani comunichiamo con codici linguistici, paralinguistici e non verbali, utilizzando sia una “lingua” (italiano, francese, tedesco) che uno stile o sottocodice di quella lingua (ottimista, pessimista, burocratese, ironico, ecc.) 

Un aspetto fondamentale della conversazione è la comunicazione non verbale: il linguaggio del corpo può esprimere una grande varietà di significati, che “trasudano” e irrompono nella comunicazione anche senza il controllo diretto dei soggetti. 

Altrettanto importante è il sistema paralinguistico, fatto di toni, accenti, enfasi su parole o parti del discorso, silenzi, e tutto quanto riferisce al “non verbale del parlato”. 

Per riassumere, i canali principali attraverso i quali il comunicatore può lanciare messaggi sono composti dal sistema paralinguistico, dal body language e dagli accessori personali, inclusi l’abbigliamento e il look generale. 

Parlarsi chiaro richiede un linguaggio corporeo che accompagni il testo verbale, senza dare però per scontato che le persone con cui interagiamo abbiano studiato la comunicazione non verbale. Per comprendersi infatti è necessario esprimersi apertamente, mentre per dare vita ad una comunicazione costruttiva è fondamentale creare rapporto.

L’atteggiamento percepito nell’altro dipende in larga misura dal “come” viene espresso il comportamento, piuttosto che dal contenuto linguistico, il quale rimane alla superficie del rapporto stesso. In profondità, il rapporto è determinato dagli atteggiamenti del corpo e da tutto il repertorio non verbale del comunicatore, il quale deve sempre considerare la possibilità che alcuni segnali di atteggiamento utilizzati nella propria cultura siano colti in modo anche diametralmente opposto in una cultura diversa e che il suo stile non sia capito, che sia frainteso, o che proprio non piaccia. 

Atteggiamenti non verbali e corporei sbagliati possono portare facilmente ad una escalation (salita di tensione, nervosismo e irritazione), mentre il compito del comunicatore efficace è quello di creare de-escalation: moderazione dei toni, clima rilassato, ambiente favorevole alla comunicazione.  

L’obiettivo generale della comunicazione infatti è di essere efficaci e raggiungere risultati, il che prevede generalmente un clima di cooperazione.   

Come già accennato, ogni cultura usa regole non verbali diverse, ma in assenza di precise indicazioni che provengano da conoscitori aggiornati della cultura stessa, possiamo utilizzare come base di partenza alcune regole generali di buona comunicazione per ridurre il potenziale di errore, come esposto dal Public Policy Center della University of Nebraska: 

  • tono di voce pacato, non aggressivo; 
  • sorriso, per esprimere accettazione dell’altro; 
  • espressione facciale di interesse; 
  • gesti aperti; 
  • permettere alla persona con cui si sta parlando di dettare le distanze spaziali tra di voi (le distanze spaziali variano ampiamente da cultura a cultura); 
  • annuire, dare cenni di assenso; 
  • focalizzarsi sulle persone e non sui documenti presenti sul tavolo; 
  • piegare il corpo in avanti in segno di interesse; 
  • mantenere una condizione di relax; 
  • tenere una posizione a L, disporsi non di fronte (posizione confrontazionale), ma su due lati vicini del tavolo. 

Teniamo a sottolineare che queste indicazioni di massima sono solo “possibili opzioni” e devono essere di volta in volta adattate alla cultura di riferimento. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: